Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974
  

UN PONTE TRA AFRICA ED EUROPA, APERTO AD ORIENTE

I FOSSILI DELLA VENA DEL GESSO

   

Gian Battista Vai

     

Il lettore si è già reso conto, nel capitolo precedente, di quanto siano importanti i resti fossilizzati degli organismi rinvenuti in quella specie di processo indiziario che è la lettura del grande libro della storia della Terra, scritta negli strati. Ma, oltre all'ambiente in cui le rocce si sono formate, i fossili ci insegnano anche l'età relativa, più o meno antica, delle rocce stesse. Sono poi affascinanti, di per sé, come testimonianza diretta dell'evoluzione della vita sulla Terra e come indicatori delle grandi variazioni climatiche del passato, che si possono ricostruire con precisione seguendo le loro migrazioni.

Prima, però, di parlare dei fossili più famosi e interessanti della Vena del Gesso, vorrei raccontare una storia che inizia in un torrido pomeriggio di agosto del 1985, alla Cava del Monticino di Brisighella.

Tonino Benericetti (sembrerebbe un nome di favola e invece è proprio vero) è un appassionato cercatore di minerali, fossili e antichità. Non lo fa per lucro, ma per passione. E' autodidatta e non ha ancora avuto contatti con ambienti ufficiali o accademici. Passa così gran parte del suo tempo libero e delle vacanze.

Intravede tra masse di cristalli di gesso e filoni di argilla scura che li innervano dei frammenti fossili bruni, lucenti, quasi come denti, e qualche ossa che non ha mai visti nella sua decennale attività nei gessi. Non ricorda neppure di averne notato accenni nelle poche pagine di una guida naturalistica locale o all'unica conferenza divulgativa che ha avuto la ventura di ascoltare sull'argomento.

Questo è il punto cruciale. La mancanza di riferimenti gli fa presagire di aver scoperto qualcosa di importante. Supera di colpo i freni della timidezza e i vantaggi della clandestinità. Si mette in contatto con la scienza ufficiale e con gli organi di tutela (Sovrintendenza). In breve tempo appare che quella scoperta da Tonino è una delle più ricche e interessanti faune europee di roditori fossili e di altri mammiferi terrestri, che popolavano i bordi ripetutamente emergenti delle lagune e delle saline durante l'età geologica conosciuta come Messiniano (da 6,5 a 5 milioni di anni fa circa secondo le conoscenze al 1985). Un convegno internazionale consacra la scoperta tre anni dopo e oggi il nome di Tonino figura nei trattati di paleontologia descrittiva per essere stato scelto a designare una specie nuova per la scienza.

Prima di questa bella storia, che sembra fare invidia alle raccolte di Fedro o di La Fontaine, la Vena del Gesso romagnola (e i gessi suoi equivalenti che punteggiano in maniera discontinua tutta la penisola dal Piemonte alla Sicilia) era famosa soprattutto per le ricche collezioni di pesci fossili. Essi fanno bella mostra nei musei di tutto il mondo, insieme con i limpidi cristalli dalle dimensioni colossali. Sono due le ragioni che spiegano la notorietà di questa fauna. Una è l'attività di cava di gesso come pietra da taglio e materiale edile a presa rapida, documentata come assai florida a partire dal 1100. L'altra è la coltivazione mineraria vera e propria di zolfo e sali di sodio e di potassio, massiccia già nell'800. Attività minerarie di questo tipo, svolte prevalentemente a mano, hanno consentito di recuperare intatti numerosi "pezzi da museo" sia di cristalli che di pesci. Il presupposto iniziale di queste splendide collezioni, però, consiste nella ricchezza oggettiva e nella buona conservazione dei pesci fossili nella Formazione Gessoso-solfifera.

I pesci popolavano rigogliosi le acque marine che periodicamente inondavano il Mediterraneo, fino ad entrare nelle lagune bordiere e nelle saline ai piedi dell'Appennino embrionale. Qui però, per l'alta evaporazione e l'incremento di temperatura e salinità dell'acqua, rimanevano intrappolati, vittime di colossali fioriture algali che ne provocavano morie in massa per asfissia (mancanza di ossigeno nell'intera e sottile massa d'acqua). Le tracce più imponenti di eutrofie coinvolgono le diatomee e sono testimoniate dalle cosiddette "farine fossili" dei tripoli, nome tradizionale per depositi silicei giallicci, porosi e leggeri che precedono di poco, nella successione degli strati messiniani, i primi calcari stromatolitici e i gessi (vedi cap. precedente). E' comprensibile allora che i fondali delle lagune rimanessero persistentemente privi di ossigeno, e quindi di vita, se si eccettuano i piccolissimi batteri anaerobici. Ciò era più facile là dove i fondali erano più profondi (circa 40-50 metri), così da scampare alla riossigenazione provocata dal moto ondoso e dalle onde di tempesta che raramente raggiungevano le lagune. Allora, la stragrande maggioranza dei pesci morti e caduti sul fondo veniva risparmiata dalla distruzione sia per predazione che per ossigenazione, e poteva venire lentamente fossilizzata. Così, il loro scheletro cartilagineo, le squame e, talora, anche le ornamentazioni più fini e le impronte di parti molli si sono potuti conservare alla perfezione. Oggi ritroviamo i pesci fossilizzati in quelle rocce argillose scure, caratteristiche per la loro fine e fitta fogliettatura (o laminazione primaria), indice appunto di una sedimentazione che non è stata più disturbata da alcun organismo, dato che tutti erano impossibilitati a vivere sul fondo asfittico del mare.

Rocce argillose di questo tipo sono in primo luogo associate ai "tripoli", di cui s'è detto sopra. Formano poi gran parte delle cosiddette argille euxiniche, quei sottili interstrati che separano le grosse bancate gessose (Fig. 1). Le sottili lamine primarie di queste argille (anche meno di mezzo millimetro di spessore) sono costituite da alternanze di minerali argillosi e di finissimi granuletti di quarzo; il tutto è impregnato di abbondante sostanza organica in forma di bitume disperso, che dà colore scuro alla roccia, o di vere concentrazioni di nero asfalto in straterelli o vene spessi fino al centimetro. Rocce simili a queste, chiamate "rocce madri", sono la sorgente principale del metano e del petrolio in Pianura Padana e altrove; in caso di crisi petrolifera, con prezzo del greggio al di sopra di una certa soglia, possono essere oggetto di coltivazione mineraria e di trattamento diretto per estrarne il petrolio.

Questi pesci hanno colpito la fantasia dei cavatori e dei collezionisti almeno dall'inizio dell'800, sia per il contrasto di colore, dall'ambrato degli scheletri al grigio o avorio della roccia incassante, che per l'eccellente conservazione. Il loro pregio estetico e museale è degno del loro interesse scientifico (Fig. 2).

Le varie specie di pesci, per essere più o meno strettamente vincolate a certe condizioni di temperatura e salinità dell'acqua in cui vivono, sono ottimi indicatori di ambiente. In particolare ci possono testimoniare le variazioni di salinità nel tempo e nello spazio, come cambia cioè il fattore di controllo di un ambiente di sedimentazione evaporitico. Impariamo, così, che la concentrazione, in assoluto, è andata crescendo durante la formazione della Vena del Gesso. La crescita però non è stata né lineare né continua, bensì marcatamente periodica o ciclica; come già suggerito dalla ripetizione ritmica dei principali tipi di rocce: argille euxiniche, calcari stromatolitici e gessi (vedi cap. precedente). Ad ogni aumento di concentrazione, che portava a precipitazione di gesso e, se possibile, di sali, è seguito rapido il ritorno a condizioni di salinità quasi uguali a quelle dell'acqua marina. E ciò è avvenuto per almeno 15 o 16 volte (Fig. 3).

Pesci come Zeus faber (Fig. 4), grandi Sardina pilchardus e specie varie dei generi Epinephelus e Scorpaena non sopravvivono in acque appena sovrasalate e ci garantiscono che, all'inizio dei cicli, acqua normale marina ha invaso gli antichi mari Adriatico e Ionio, e forse l'intero Mediterraneo. Dopo un certo tempo, però, in quegli stessi mari, o almeno nelle loro lagune e saline bordiere, resistevano solo pesci adatti a sopportare una salsedine assai maggiore, come i generi Atherina, Gobius e Aphanius (Fig. 5, 6, 7).

Proprio una specie di Aphanius, L'A. crassicaudus (noto ai vecchi amatori come Pachy1ebias crassicauda) è il pesce che si trova più di frequente. La ragione è molto semplice e lo rende un vero e proprio indicatore. Quando la salinità cresce ancora, tutti gli altri pesci scompaiono e il codagrossa rimane solo, come specie, ma con uno stuolo di individui, a dominare il mondo ittico. Ad ogni ulteriore aumento di salinità nei bacini evaporitici prossimi a diventare "saline" gessose, Aphanius crassicaudus risponde con un ispessimento marcato del suo scheletro cartilagineo (è il cosiddetto processo di pachiostosi), quasi a resistere meglio in questo ambiente sempre più ostile. Poi anch'egli deve cedere, lasciando campo libero alle sole alghe filamentose e coccoidi bleu-verdi e ai batteri.

I pesci scoperti e studiati negli ultimi anni hanno arricchito il quadro delle forme di acqua marina normale che popolavano la Vena del Gesso, e i bacini simili, dopo ogni nuova "inondazione" marina, rimpiazzando il "disseccamento" precedente.

Alcuni generi sono di particolare importanza perché, in base alla loro distribuzione geografica attuale, ci possono fornire indicazioni sulle condizioni climatiche durante la formazione della Vena del Gesso. Sono significativi i generi Lates, Spratelloides e la Famiglia dei Ciclidi, quali indicatori di fasce da subtropicali a tropicali.

Le forme più interessanti fra quelle scoperte recentemente sono senza dubbio i Ciclidi (Fig. 8). Pesci di questo tipo vivono oggi nelle acque interne fluviali dell'Egitto e del Sudan, in particolare lungo i vari rami del delta del Nilo e nei grandi laghi associati alle fosse tettoniche dell'Africa centro-orientale. Questa famiglia di pesci è dotata ancor oggi di una straordinaria potenzialità evolutiva. La sua capacità di irraggiamento, per adattamento ai nuovi ambienti in cui si è trovata a potersi espandere, ha fatto sì che i laghi che sono stati colonizzati più di recente presentino numerose specie anche assai differenti da quelle di precedenti insediamenti. I Ciclidi, pur preferendo l'acqua dolce, sopportano con facilità anche condizioni salmastre e di salinità marina variabile; non resistono, invece, a condizioni stabilmente sovrasalate. Prima d'ora non erano mai stati trovati, viventi o fossili, in Europa. Il fatto che popolassero la Vena del Gesso e gli altri bacini evaporitici che bordeggiavano l'Adriatico circa 6 milioni di anni fa, durante il Messiniano, ci pone a rovescio il problema della loro provenienza e delle loro vie di migrazione.

Non deve sorprendere che vivessero allora in Europa e non ci siano, invece, oggi. Non dipende dall'inquinamento o da qualche altra diavoleria moderna. E' semplicemente la registrazione puntuale di significativi cambiamenti climatici intercorsi da allora. i Ciclidi popolavano le nostre acque nel Messiniano perché, allora, il nostro clima era assai più comparabile a quello dell'Africa attuale. Il mistero, invece, riguarda il modo con cui i Ciclidi riuscirono ad arrivare nel Pesarese e in Romagna dalla loro area iniziale di espansione in Africa orientale. Non c'è difficoltà ad ammettere una migrazione per via costiera, tramite le acque marine a salinità normale del Tortoniano superiore o del Messiniano inferiore (circa 7 milioni di anni fa), immediatamente prima della crisi di salinità. Le difficoltà sorgono quando si deve spiegare come possano aver aggirato le condizioni successive di un vasto mare sovrasalato, a cui notoriamente non possono resistere. Noi infatti troviamo i loro resti nelle argille euxiniche intercalate ai gessi, cioè in piena successione evaporitica. Il problema si può risolvere ammettendo che i Ciclidi potessero sopravvivere in bacini di "parcheggio", per così dire; bracci di mare in condizioni di salinità normale che potevano persistere a lato delle saline (e allora la crisi di salinità e il disseccamento non si sarebbe esteso all'intero Mediterraneo). Oppure bisogna ammettere che ad ogni ciclica inondazione con acqua marina normale del Mediterraneo disseccato i Cicladi ritrovassero le condizioni per irraggiarsi fino alle nostre regioni (in tal caso sembra convincente pensare che le inondazioni temporanee con acqua marina normale provenissero dall'Oceano Indiano tramite l'attivazione di soglie lungo l'Istmo di Suez; solo con la fine del Messiniano l'apertura dello Stretto di Gibilterra avrebbe aperto il collegamento con l'Atlantico producendo l'inondazione marina definitiva del Mediterraneo). Non deve sorprendere un tipo di irraggiamento così rapido dei Ciclidi, come è implicito in quest'ultima ipotesi. E' nota la velocità con cui vari pesci e molluschi dell'Oceano Indiano sono penetrati nel Mediterraneo dopo l'apertura storica del Canale di Suez. In quest'ottica, ci sarebbe quasi da aspettarsi tra breve una nuova colonizzazione dei Ciclidi in Adriatico.... se non fosse così inquinato e se le Cassandre "dell'effetto serra", con relativo aumento della temperatura, avranno ragione.

Delle alghe, filamentose e coccoidi, e della loro importanza come costruttori dei calcari stromatolitici e di una parte considerevole del gesso, si è già detto sopra e nel capitolo precedente (Figg., 9, 10). Va ancora rilevato il loro ruolo nelle gigantesche fioriture e anossie (mancanza di ossigeno) che hanno caratterizzato gli stadi preparatorio iniziale e ciclici successivi dei bacini evaporitici della Vena del Gesso e simili. Monito geologico di una predisposizione strutturale del Mediterraneo e dei suoi mari all'eutrofia catastrofica.

C'è un gruppo di organismi, infine, per definizione mal o non visibili, i batteri, che si segnalano nei banchi evaporitici della Romagna non tanto per le loro presenze quanto per i loro effetti. Sono i cosiddetti solfobatteri che, adatti a vivere in condizioni anaerobiche (cioè in mancanza di ossigeno), per le loro esigenze alimentari trasformano il gesso (solfato di calcio CaSO4 - 2H2O) riducendolo a zolfo (S) o addirittura a acido solfidrico (H2 S) . Per quale insieme di ragioni questo processo sia saltuario e limitato nella Formazione Gessoso-solfifera dell'Emilia e della Romagna occidentale (dove si ricordano i noduli di zolfo amorfo attraverso il greto dell'Idice presso Castel de' Britti e le masserelle microcristalline di Brisighella) per farsi invece imponente in Romagna orientale e nelle Marche (dove erano ubicate le grandi miniere) non è dato sapere.

In genere possiamo rilevare che la facies della Vena del Gesso, con grande sviluppo di banchi di gesso ben organizzati in lamine a grandi cristalli, non è adatta allo sviluppo di zolfo, se non in masserelle là dove è più abbondante la componente argillosa (Fig. 11). La facies romagnola orientale, con sabbia di gesso e gesso più minuto e relativamente poco abbondante rispetto alle argille e ai calcari stromatolitici, può contenere grandi ammassi di zolfo anche in grossi cristalli associati a vene di bitume puro. I massimi adunamenti e concentrazioni di minerale sono associati a strutture deformative (pieghe e faglie). Ci sono quindi condizioni ambientali al momento della formazione delle evaporiti e di loro trasformazione chimica sia postdeposizionale (la cosidetta diagenesi) che deformativa che controllano la nascita dello zolfo e la sua concentrazione nella roccia.

Ho di proposito relegato in ultima posizione la fauna a vertebrati (soprattutto micromammiferi o topolini) scoperta di recente, che ha forse sollecitato la curiosità del lettore. In realtà questa fauna, pur trovandosi oggi all'interno dei gessi, non ne faceva parte al momento in cui i gessi si formavano. Come può essere avvenuto ciò? Non è un caso nuovo questo; anzi, ci riconduce ad uno dei problemi più classici della geologia, dibattuto aspramente per oltre tre secoli, a partire dal Cinquecento, ma già risolto brillantemente da Leonardo, nei manoscritti rimasti purtroppo sconosciuti fino all'Ottocento, e "pubblicamente" da Nicola Steno. Il futuro vescovo danese di Muenster in Westfalia, naturalizzato toscano (è sepolto in S. Croce a Firenze), dava alle stampe nel 1669 quella che viene considerata la pietra di fondazione della geologia, il De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus. Anche lì si trattava di capire come mai dentro certe rocce si trovassero vene cristalline e resti di conchiglie simili a quelle viventi nei mari. Il nostro problema è sostanzialmente identico, con la variante che noi abbiamo a che fare con resti di organismi che non sono marini ma continentali.

Diamo per escluso che topolini e roditori vari, gazzelle, cervi e cavalli, linci, lepri e scimmie (dato che di una fauna di questo tipo si tratta, naturalmente con le specie o i generi di quel tempo, Figg. 14/19) vivessero in lagune sovrasalate. Si deve allora ammettere che i resti scheletrici di questi animali siano il prodotto del trasporto delle loro carogne durante le piene dei torrenti che confluivano nelle lagune; oppure che gli stessi resti siano stati introdotti nelle bancate gessose dopo la formazione di queste. Nel primo caso dovremo trovare le ossa degli animali, insieme con altro materiale trasportato dai torrenti, disperse direttamente dentro le bancate gessose e disposte parallelamente alle lamine che le costituiscono. Nel secondo, invece, ci aspettiamo di riscontrare delle cavità o delle fessure che, attraversando e interrompendo le bancate gessose, abbiano consentito l'accumulo delle ossa. Ebbene, questo secondo è il caso che effettivamente si è verificato in campagna. Le ossa, quelle più grandi e quelle minutissime quali sono i dentini dei piccoli roditori, si trovano concentrate in cavità irregolari, lisciate e rotondeggianti, del tipo di quelle note nelle aree carsiche attuali (Fig. 12); oppure in fessure nette, che tagliano perpendicolarmente gli strati gessosi e sono collegate a formare una specie di reticolato che permea la roccia in maniera pervasiva (Fig. 13). Dentro alle cavità e alle fessure le ossa si trovano come se fossero contenute in una pasta (matrice) di argilla verdastra, che ingloba anche ciottoli di calcari stromatolitici e conchiglie di ambiente salmastro (come le Valli di Comacchio). La stessa pasta argillosa, con gli stessi ingredienti, si trova alla sommità delle bancate della Vena del Gesso e rappresenta localmente la Formazione a Colombacci, che separa le evaporiti della Gessoso-solfifera dalle Argille Azzurre dei calanchi pliocenici e pleistocenici (vedi cap. precedente). In essa però non si conoscono resti così ricchi di ossa di animali terrestri. Ecco, allora, che il quadro si fa decisamente complicato, quasi come un giallo, e come tale va indagato.

Se ci si mette pazientemente a contare i dentini dei roditori (sono fino a migliaia per chilogrammo di pasta argillosa, Fig. 14) e a riconoscerli per posizione (ad es., incisivo, premolare, ecc.) e per appartenenza alla mandibola o alla mascella, si vede che sul fondo delle cavità rotondeggianti i conti sono in pareggio. In altri termini, il numero di elementi destri e sinistri è lo stesso, sia per le mandibole che per le mascelle. Lo stesso capita per gli arti, posteriori e anteriori. Ciò vuol dire che nella cavità sono caduti scheletri completi, anche se a pezzi. E difficile aspettarsi una situazione del genere a seguito di trasporto torrentizio. Essa è, invece, assai comune negli anfratti rocciosi in cui i predatori, primi fra tutti gli uccelli, portano le loro prede, soprattutto topi, per gustarli in santa pace, rigurgitando poi i resti scheletrici. Questo meccanismo alimentato ha lo stesso effetto di una buona centrifuga per concentrazione. Con questa serie di dati e di induzioni, possiamo tentare una sommaria ricostruzione della storia che ci è suggerita dalla nuova fauna (Figg. 15/19).

Al termine dell'ultimo ciclo gessoso non è avvenuta la solita inondazione marina dal Mar Rosso (come ipotizzato sopra), perché quel meccanismo ciclico è stato sconvolto da un evento intenso e esteso a quasi tutta l'area circummediterranea. Questo evento ha portato alla costituzione di nuove fasce montuose (note come Catene Intramessiniane). A un processo di questo genere si accompagna una vera rivoluzione geografica, con interruzione di stretti, apertura di nuove vie d'acqua, sollevamento di dorsali, catture e deviazioni di grandi sistemi fluviali. E' capitato così che Mar Ionio e Adriatico con l'intera Pianura Padana, allora sommersa, diventassero un'appendice della grande massa di acqua dolce o salmastra, nota come Paratetide un immenso lago-mare esteso a comprendere l'intera Pianura Pannonica, il Mar Nero, il Mar Caspio e il Mar d'Aral). Ionio e Adriatico si sono così rapidamente addolciti, anche per 1Ingente contributo delle precipitazioni condizionate dall'imponente arco alpino occidentale completamente emerso e dalla dorsale appenninica in sollevamento. Anche il bacino della Vena del Gesso veniva incorporato proprio nel fronte in deformazione e in sollevamento della Catena Intramessiniana e subiva poi l'effetto della nuova inondazione salmastra proveniente dalla Paratetide. Questa portava al progressivo deposito di argille con conchiglie di ambiente salmastro della Formazione a Colombacci. L'inondazione e i suoi depositi raggiungevano in ritardo le alture gessose più piegate e sollevate, lasciando tempo all'incisione torrentizia di scavare anfratti e roccioni carsici, per il felice prosperare di gran numero di falchi e delle rispettive prede. Successivamente, l'inondazione riempiva con le sue argille le cavità, preservando le ossa, già concentrate, altrimenti destinate a lenta ossidazione. Ma sul fronte della catena, proprio lungo la Vena del Gesso, gli sforzi deformativi non erano ancora esauriti e si concretizzavano in una intensa fase di fratturazione in blocchi delle bancate gessose, segnata da frequenti e intensi terremoti. Le argille della Formazione a Colombacci, che si stavano depositando sopra le bancate gessose, per effetto di questi terremoti venivano come risospese nell'acqua del bacino (fluidificazione) e iniettate, per effetto del loro stesso peso, entro le fratture e le fessure più fini della sottostante roccia gessosa. Durante questo processo di improvvisa iniezione le fratture che si aprivano attraverso precedenti cavità carsiche, già riempite di ossa, consentivano al fluido ricco di argilla di inglobare i frammenti di ossa e di iniettarli, insieme all'argilla, fin nelle fessure più lontane e profonde, alla base della stessa successione gessosa. Ecco così svelato, seppur in maniera semplificata, il rebus delle faune messiniane terrestri della Cava Monticino trovate dentro le bancate gessose.

Le stesse faune, in condizioni identiche, sono state trovate anche a Borgo Tossignano sul greto del Santerno. Purtroppo quel giacimento è stato distrutto dai recenti lavori di costruzione di una traversa per moderare l'erosione dell'alveo. Giacimenti simili dovrebbero trovarsi in altri tratti della Vena del Gesso dove ci sia stata, durante il Messiniano, emersione precoce, sviluppo di carsismo e fratturazione collegata alla deformazione in atto durante la deposizione delle argille della Formazione a Colombacci. Ecco un tema di indagine che gli appassionati di geologia potrebbero svolgere durante le loro escursioni sulla Vena del Gesso.

Come tutte le popolazioni terrestri, anche questa fauna, per espandersi, deve avere seguito vie naturali di migrazione per propria tendenza all'espansione oppure sotto la pressione di sconvolgimenti naturali (siccità, carestie, drastici cambiamenti climatici, grandi terremoti, grandi eruzioni vulcaniche, ecc.). In ogni caso, dalla composizione della fauna, percorrendo il cammino a ritroso, potremo individuare la patria da cui proviene. Ebbene, molte delle specie trovate al Monticino di Brisighella hanno provenienza sud-orientale, dalla Penisola Balcanica e dall'Asia Minore. Sono scarse, invece, le affinità con le faune terrestri dell'Europa centro-occidentale. Ciò è in accordo con l'imponente inondazione salmastra dalla Paratetide fino all'alto Adriatico nel Messiniano tardo. Suggerisce anche che durante l'emersione precedente (come pure durante i vari disseccamenti alternanti alle inondazioni marine, anch'esse di probabile provenienza sud-orientale) i ponti continentali fossero così vasti da facilitare la migrazione. Le vie dell'Europa, invece, erano precluse dalla barriera fisica e soprattutto climatica delle Alpi e dell'Appennino. Non a caso, mentre nell'area ionico-adriatica avveniva l'inondazione salmastra, in quella siculo-tirrenica (come anche in Spagna) si depositavano ancora gessi e le faune terrestri circostanti le lagune erano completamente diverse da quella del Monticino.

    

fig. 1 fig. 2 fig. 3 fig. 4 fig. 5 fig. 6 fig. 7
              

fig. 8a fig. 8b fig. 9 fig. 10 fig. 11 fig. 12 fig. 13
             

fig. 14 fig. 15 fig. 16a fig. 16b fig. 17 fig. 18 fig. 19
       

fig. 1 - Le lamine submillimetriche che costituiscono le argille euxiniche poste tra le bancate gessose. Sezione sottile trasversale; la barretta è 1 mm. (foto G.B. Vai - P. Ferreri)

fig. 2 - Aphanius crassicaudus, Cava Monticino, Brisighella. (foto G.P. Costa)

fig. 3 - Successione in forma di colonna delle unità stratigrafiche di tipo litologico e ciclico che si distinguono nella Vena del Gesso, Romagna (da Marabini & Vai, 1985 mod.). si notino i filoni di materiale della Formazione a Colombacci (verde) che attraversano parte delle bancate gessose e, sulla destra, lo schema della successione regolare di facies che caratterizzano i cicli della Vena del Gesso a partire dal VI.

fig. 4 - Zeus Faber. (da Sorbini, 1988)

fig. 5 - Atherina sp. Cava SPES, Rio Sgarba, Borgo Tossignano, cicli XII e XIII (foto P. Viaggi)

fig. 6 - Gobius sp. Cava SPES, Rio Sgarba, Borgo Tossignano, cicli XII e XIII (foto P. Viaggi)

fig. 7 - Aphanius crassicaudatus, Cava SPES, Rio Sgarba, Borgo Tossignano, cicli XII e XIII (foto P. Viaggi)

fig. 8 - Specie di Ciclidae. : 8a, da Borgo Tossignano, Cava SPES (foto M. Castellari); 8b, da Pesaro, Monte Castellaro (in Sorbini, 1988).

fig. 9 - Tappeti algali filamentosi hanno originato le lamine millimetriche di questo calcare stromatolitico in parte gessificato; base del Monte Penzola, sotto il III banco (foto G.B. Vai)

fig. 10 - Cristallo di selenite geminato a coda di rondine. E' evidente un nucleo primario, i cui stadi di accrescimento sono segnati da tubuli biancastri di origine algale. Al bordo spicca l'accrescimento cristallino limpido. Il diametro del fiore è 1 cm. (foto G.B. Vai)

fig. 11 - Noduli di zolfo amorfo nelle argille gessose del greto dell'Idice, Castel de' Britti (foto C. Cantelli)

fig. 12 - Cavità paleocarsica modellata nel VI banco di gesso e riempita durante il Messiniano superiore da argille della Formazione a Colombacci inglobanti resti di microvertebrati, Cava Monticino (foto G.B. Vai)

fig. 13 - Frattura attraverso il VII banco di gesso riempita da conglomerati argillosi della formazione a Colombacci con ossa di vertebrati, Cava Monticino (foto G.B. Vai)

fig. 14 - Scatola di raccolta e classificazione (nei comparti) dei vari tipi di ossa e denti di microvertebrati ottenuti per lavaggio di qualche kg di argilla della Formazione a Colombacci infiltrata dentro fessure tettoniche e cavità carsiche del gesso (foto M. Sami)

fig. 15 - Plioviverrops Faventinus, parte del cranio di felino nella fauna del Messiniano superiore del Monticino (foto G.P. Costa - F. Landucci)

fig. 16 - Denti di rinoceronte prima (16a) e dopo lo scavo e la ripulitura (16b), Cava Monticino. (foto G.P. Costa - F. Landucci)

fig. 17 - La delicata fase di liberazione e raccolta dei resti maggiori di vertebrati nelle argille della Formazione a Colombacci infiltrate dentro cavità e fratture dei banchi di gesso. (foto G.P. Costa)

fig. 18 - Corna di Samotragus occidentalis (una specie di gazzella) nella fase di liberazione dalle argille scure che riempiono una frattura nel gesso chiaro. (foto G.P. Costa)

fig. 19 - Zampa anteriore di Plioviverrops faventinus; v. Fig. 29. (foto G.P. Costa)


          

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