I FOSSILI DELLA
VENA DEL GESSO |
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Gian Battista
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Il lettore si è già reso conto,
nel capitolo
precedente, di quanto siano importanti i resti
fossilizzati degli organismi rinvenuti in quella specie di
processo indiziario che è la lettura del grande libro della
storia della Terra, scritta negli strati. Ma, oltre all'ambiente
in cui le rocce si sono formate, i fossili ci insegnano anche
l'età relativa, più o meno antica, delle rocce stesse. Sono
poi affascinanti, di per sé, come testimonianza diretta
dell'evoluzione della vita sulla Terra e come indicatori delle
grandi variazioni climatiche del passato, che si possono
ricostruire con precisione seguendo le loro migrazioni.
Prima, però, di parlare dei
fossili più famosi e interessanti della Vena del Gesso, vorrei
raccontare una storia che inizia in un
torrido pomeriggio di agosto del 1985, alla Cava del Monticino
di Brisighella.
Tonino Benericetti (sembrerebbe
un nome di favola e invece è proprio vero) è un appassionato
cercatore di minerali, fossili e antichità. Non lo fa per
lucro, ma per passione. E' autodidatta e non ha ancora avuto
contatti con ambienti ufficiali o accademici. Passa così gran
parte del suo tempo libero e delle vacanze.
Intravede tra masse di cristalli
di gesso e filoni di argilla scura che li innervano dei
frammenti fossili bruni, lucenti, quasi come denti, e qualche
ossa che non ha mai visti nella sua decennale attività nei
gessi. Non ricorda neppure di averne notato accenni nelle poche
pagine di una guida naturalistica locale o all'unica conferenza
divulgativa che ha avuto la ventura di ascoltare sull'argomento.
Questo è il punto cruciale. La
mancanza di riferimenti gli fa presagire di aver scoperto
qualcosa di importante. Supera di colpo i freni della timidezza
e i vantaggi della clandestinità. Si mette in contatto con la
scienza ufficiale e con gli organi di tutela (Sovrintendenza).
In breve tempo appare che quella scoperta da Tonino è una delle
più ricche e interessanti faune europee di roditori fossili e
di altri mammiferi terrestri, che popolavano i bordi
ripetutamente emergenti delle lagune e delle saline durante l'età
geologica conosciuta come Messiniano (da 6,5 a 5 milioni di anni
fa circa secondo le conoscenze al 1985). Un convegno
internazionale consacra la scoperta tre anni dopo e oggi il nome
di Tonino figura nei trattati di paleontologia descrittiva per
essere stato scelto a designare una specie nuova per la scienza.
Prima di questa bella storia, che
sembra fare invidia alle raccolte di Fedro o di La Fontaine, la
Vena del Gesso romagnola (e i gessi suoi equivalenti che
punteggiano in maniera discontinua tutta la penisola dal
Piemonte alla Sicilia) era famosa soprattutto per le ricche
collezioni di pesci fossili. Essi fanno bella mostra nei musei
di tutto il mondo, insieme con i limpidi cristalli dalle
dimensioni colossali. Sono due le ragioni che spiegano la
notorietà di questa fauna. Una è l'attività di cava di gesso
come pietra da taglio e materiale edile a presa rapida,
documentata come assai florida a partire dal 1100. L'altra è la
coltivazione mineraria vera e propria di zolfo e sali di sodio e
di potassio, massiccia già nell'800. Attività minerarie di
questo tipo, svolte prevalentemente a mano, hanno consentito di
recuperare intatti numerosi "pezzi da museo" sia di
cristalli che di pesci. Il presupposto iniziale di queste
splendide collezioni, però, consiste nella ricchezza oggettiva
e nella buona conservazione dei pesci fossili nella Formazione
Gessoso-solfifera.
I pesci popolavano rigogliosi le
acque marine che periodicamente inondavano il Mediterraneo, fino
ad entrare nelle lagune bordiere e nelle saline ai piedi
dell'Appennino embrionale. Qui però, per l'alta evaporazione e
l'incremento di temperatura e salinità dell'acqua, rimanevano
intrappolati, vittime di colossali fioriture algali che ne
provocavano morie in massa per asfissia (mancanza di ossigeno
nell'intera e sottile massa d'acqua). Le tracce più imponenti
di eutrofie coinvolgono le diatomee e sono testimoniate dalle
cosiddette "farine fossili" dei tripoli, nome
tradizionale per depositi silicei giallicci, porosi e leggeri
che precedono di poco, nella successione degli strati messiniani,
i primi calcari stromatolitici e i gessi (vedi cap. precedente).
E' comprensibile allora che i fondali delle lagune rimanessero
persistentemente privi di ossigeno, e quindi di vita, se si
eccettuano i piccolissimi batteri anaerobici. Ciò era più
facile là dove i fondali erano più profondi (circa 40-50
metri), così da scampare alla riossigenazione provocata dal
moto ondoso e dalle onde di tempesta che raramente raggiungevano
le lagune. Allora, la stragrande maggioranza dei pesci morti e
caduti sul fondo veniva risparmiata dalla distruzione sia per
predazione che per ossigenazione, e poteva venire lentamente
fossilizzata. Così, il loro scheletro cartilagineo, le squame
e, talora, anche le ornamentazioni più fini e le impronte di
parti molli si sono potuti conservare alla perfezione. Oggi
ritroviamo i pesci fossilizzati in quelle rocce argillose scure,
caratteristiche per la loro fine e fitta fogliettatura (o
laminazione primaria), indice appunto di una sedimentazione che
non è stata più disturbata da alcun organismo, dato che tutti
erano impossibilitati a vivere sul fondo asfittico del mare.
Rocce argillose di questo tipo
sono in primo luogo associate ai "tripoli", di
cui s'è detto sopra. Formano poi gran parte delle cosiddette argille
euxiniche, quei sottili interstrati che separano le grosse
bancate gessose (Fig. 1). Le sottili lamine primarie di queste argille
(anche meno di mezzo millimetro di spessore) sono costituite da
alternanze di minerali argillosi e di finissimi granuletti di
quarzo; il tutto è impregnato di abbondante sostanza organica
in forma di bitume disperso, che dà colore scuro alla roccia, o
di vere concentrazioni di nero asfalto in straterelli o vene
spessi fino al centimetro. Rocce simili a queste, chiamate
"rocce madri", sono la sorgente principale del metano
e del petrolio in Pianura Padana e altrove; in caso di crisi
petrolifera, con prezzo del greggio al di sopra di una certa
soglia, possono essere oggetto di coltivazione mineraria e di
trattamento diretto per estrarne il petrolio.
Questi pesci hanno colpito la
fantasia dei cavatori e dei collezionisti almeno dall'inizio
dell'800, sia per il contrasto di colore, dall'ambrato degli
scheletri al grigio o avorio della roccia incassante, che per
l'eccellente conservazione. Il loro pregio estetico e museale è
degno del loro interesse scientifico (Fig.
2).
Le varie specie di pesci, per
essere più o meno strettamente vincolate a certe condizioni di
temperatura e salinità dell'acqua in cui vivono, sono ottimi
indicatori di ambiente. In particolare ci possono testimoniare
le variazioni di salinità nel tempo e nello spazio, come cambia
cioè il fattore di controllo di un ambiente di sedimentazione
evaporitico. Impariamo, così, che la concentrazione, in
assoluto, è andata crescendo durante la formazione della Vena
del Gesso. La crescita però non è stata né lineare né
continua, bensì marcatamente periodica o ciclica; come già
suggerito dalla ripetizione ritmica dei principali tipi di
rocce: argille euxiniche, calcari stromatolitici e gessi (vedi
cap. precedente). Ad ogni aumento di concentrazione, che portava
a precipitazione di gesso e, se possibile, di sali, è seguito
rapido il ritorno a condizioni di salinità quasi uguali a
quelle dell'acqua marina. E ciò è avvenuto per almeno 15 o 16
volte (Fig. 3).
Pesci come Zeus faber (Fig.
4), grandi Sardina pilchardus e
specie varie dei generi Epinephelus e Scorpaena non
sopravvivono in acque appena sovrasalate e ci garantiscono che,
all'inizio dei cicli, acqua normale marina ha invaso gli antichi
mari Adriatico e Ionio, e forse l'intero Mediterraneo. Dopo un
certo tempo, però, in quegli stessi mari, o almeno nelle loro
lagune e saline bordiere, resistevano solo pesci adatti a
sopportare una salsedine assai maggiore, come i generi Atherina,
Gobius e Aphanius (Fig. 5,
6, 7).
Proprio una specie di Aphanius,
L'A. crassicaudus (noto ai vecchi amatori come Pachy1ebias
crassicauda) è il pesce che si trova più di frequente. La
ragione è molto semplice e lo rende un vero e proprio
indicatore. Quando la salinità cresce ancora, tutti gli altri
pesci scompaiono e il codagrossa rimane solo, come specie, ma
con uno stuolo di individui, a dominare il mondo ittico. Ad ogni
ulteriore aumento di salinità nei bacini evaporitici prossimi a
diventare "saline" gessose, Aphanius crassicaudus risponde
con un ispessimento marcato del suo scheletro cartilagineo (è
il cosiddetto processo di pachiostosi), quasi a resistere meglio
in questo ambiente sempre più ostile. Poi anch'egli deve
cedere, lasciando campo libero alle sole alghe filamentose e
coccoidi bleu-verdi e ai batteri.
I pesci scoperti e studiati negli
ultimi anni hanno arricchito il quadro delle forme di acqua
marina normale che popolavano la Vena del Gesso, e i bacini
simili, dopo ogni nuova "inondazione" marina,
rimpiazzando il "disseccamento" precedente.
Alcuni generi sono di particolare
importanza perché, in base alla loro distribuzione geografica
attuale, ci possono fornire indicazioni sulle condizioni
climatiche durante la formazione della Vena del Gesso. Sono
significativi i generi Lates, Spratelloides e la Famiglia
dei Ciclidi, quali indicatori di fasce da subtropicali a
tropicali.
Le forme più interessanti fra
quelle scoperte recentemente sono senza dubbio i Ciclidi
(Fig. 8). Pesci di questo tipo vivono oggi nelle acque
interne fluviali dell'Egitto e del Sudan, in particolare lungo i
vari rami del delta del Nilo e nei grandi laghi associati alle
fosse tettoniche dell'Africa centro-orientale. Questa famiglia
di pesci è dotata ancor oggi di una straordinaria potenzialità
evolutiva. La sua capacità di irraggiamento, per adattamento ai
nuovi ambienti in cui si è trovata a potersi espandere, ha
fatto sì che i laghi che sono stati colonizzati più di recente
presentino numerose specie anche assai differenti da quelle di
precedenti insediamenti. I Ciclidi, pur preferendo
l'acqua dolce, sopportano con facilità anche condizioni
salmastre e di salinità marina variabile; non resistono,
invece, a condizioni stabilmente sovrasalate. Prima d'ora non
erano mai stati trovati, viventi o fossili, in Europa. Il fatto
che popolassero la Vena del Gesso e gli altri bacini evaporitici
che bordeggiavano l'Adriatico circa 6 milioni di anni fa,
durante il Messiniano, ci pone a rovescio il problema della loro
provenienza e delle loro vie di migrazione.
Non deve sorprendere che
vivessero allora in Europa e non ci siano, invece, oggi. Non
dipende dall'inquinamento o da qualche altra diavoleria moderna.
E' semplicemente la registrazione puntuale di significativi
cambiamenti climatici intercorsi da allora. i Ciclidi
popolavano le nostre acque nel Messiniano perché, allora, il
nostro clima era assai più comparabile a quello dell'Africa
attuale. Il mistero, invece, riguarda il modo con cui i Ciclidi
riuscirono ad arrivare nel Pesarese e in Romagna dalla loro area
iniziale di espansione in Africa orientale. Non c'è difficoltà
ad ammettere una migrazione per via costiera, tramite le acque
marine a salinità normale del Tortoniano superiore o del
Messiniano inferiore (circa 7 milioni di anni fa),
immediatamente prima della crisi di salinità. Le difficoltà
sorgono quando si deve spiegare come possano aver aggirato le
condizioni successive di un vasto mare sovrasalato, a cui
notoriamente non possono resistere. Noi infatti troviamo i loro
resti nelle argille euxiniche intercalate ai gessi, cioè in
piena successione evaporitica. Il problema si può risolvere
ammettendo che i Ciclidi potessero sopravvivere in bacini
di "parcheggio", per così dire; bracci di mare in
condizioni di salinità normale che potevano persistere a lato
delle saline (e allora la crisi di salinità e il disseccamento
non si sarebbe esteso all'intero Mediterraneo). Oppure bisogna
ammettere che ad ogni ciclica inondazione con acqua marina
normale del Mediterraneo disseccato i Cicladi ritrovassero
le condizioni per irraggiarsi fino alle nostre regioni (in tal
caso sembra convincente pensare che le inondazioni temporanee
con acqua marina normale provenissero dall'Oceano Indiano
tramite l'attivazione di soglie lungo l'Istmo di Suez; solo con
la fine del Messiniano l'apertura dello Stretto di Gibilterra
avrebbe aperto il collegamento con l'Atlantico producendo
l'inondazione marina definitiva del Mediterraneo). Non deve
sorprendere un tipo di irraggiamento così rapido dei Ciclidi,
come è implicito in quest'ultima ipotesi. E' nota la velocità
con cui vari pesci e molluschi dell'Oceano Indiano sono
penetrati nel Mediterraneo dopo l'apertura storica del Canale di
Suez. In quest'ottica, ci sarebbe quasi da aspettarsi tra breve
una nuova colonizzazione dei Ciclidi in Adriatico.... se
non fosse così inquinato e se le Cassandre "dell'effetto
serra", con relativo aumento della temperatura, avranno
ragione.
Delle alghe, filamentose e
coccoidi, e della loro importanza come costruttori dei calcari
stromatolitici e di una parte considerevole del gesso, si è già
detto sopra e nel capitolo precedente (Figg.,
9, 10). Va ancora rilevato il loro ruolo nelle
gigantesche fioriture e anossie (mancanza di ossigeno) che hanno
caratterizzato gli stadi preparatorio iniziale e ciclici
successivi dei bacini evaporitici della Vena del Gesso e simili.
Monito geologico di una predisposizione strutturale del
Mediterraneo e dei suoi mari all'eutrofia catastrofica.
C'è un gruppo di organismi,
infine, per definizione mal o non visibili, i batteri,
che si segnalano nei banchi evaporitici della Romagna non tanto
per le loro presenze quanto per i loro effetti. Sono i
cosiddetti solfobatteri che, adatti a vivere in condizioni
anaerobiche (cioè in mancanza di ossigeno), per le loro
esigenze alimentari trasformano il gesso (solfato di calcio
CaSO4 - 2H2O) riducendolo a zolfo (S) o addirittura a acido
solfidrico (H2 S) . Per quale insieme di ragioni questo processo
sia saltuario e limitato nella Formazione Gessoso-solfifera
dell'Emilia e della Romagna occidentale (dove si ricordano i
noduli di zolfo amorfo attraverso il greto dell'Idice presso
Castel de' Britti e le masserelle microcristalline di
Brisighella) per farsi invece imponente in Romagna orientale e
nelle Marche (dove erano ubicate le grandi miniere) non è dato
sapere.
In genere possiamo rilevare che
la facies della Vena del Gesso, con grande sviluppo di banchi di
gesso ben organizzati in lamine a grandi cristalli, non è
adatta allo sviluppo di zolfo, se non in masserelle là dove è
più abbondante la componente argillosa (Fig.
11). La facies romagnola orientale, con
sabbia di gesso e gesso più minuto e relativamente poco
abbondante rispetto alle argille e ai calcari stromatolitici, può
contenere grandi ammassi di zolfo anche in grossi cristalli
associati a vene di bitume puro. I massimi adunamenti e
concentrazioni di minerale sono associati a strutture
deformative (pieghe e faglie). Ci sono quindi condizioni
ambientali al momento della formazione delle evaporiti e di loro
trasformazione chimica sia postdeposizionale (la cosidetta diagenesi)
che deformativa che controllano la nascita dello zolfo e la
sua concentrazione nella roccia.
Ho di proposito relegato in
ultima posizione la fauna a vertebrati (soprattutto
micromammiferi o topolini) scoperta di recente, che ha forse
sollecitato la curiosità del lettore. In realtà questa fauna,
pur trovandosi oggi all'interno dei gessi, non ne faceva parte
al momento in cui i gessi si formavano. Come può essere
avvenuto ciò? Non è un caso nuovo questo; anzi, ci riconduce
ad uno dei problemi più classici della geologia, dibattuto
aspramente per oltre tre secoli, a partire dal Cinquecento, ma
già risolto brillantemente da Leonardo, nei manoscritti rimasti
purtroppo sconosciuti fino all'Ottocento, e
"pubblicamente" da Nicola Steno. Il futuro vescovo
danese di Muenster in Westfalia, naturalizzato toscano (è
sepolto in S. Croce a Firenze), dava alle stampe nel 1669 quella
che viene considerata la pietra di fondazione della geologia, il
De solido intra solidum naturaliter contento
dissertationis prodromus. Anche lì si trattava di capire
come mai dentro certe rocce si trovassero vene cristalline e
resti di conchiglie simili a quelle viventi nei mari. Il nostro
problema è sostanzialmente identico, con la variante che noi
abbiamo a che fare con resti di organismi che non sono marini ma
continentali.
Diamo per escluso che topolini e
roditori vari, gazzelle, cervi e cavalli, linci, lepri e scimmie
(dato che di una fauna di questo tipo si tratta, naturalmente
con le specie o i generi di quel tempo, Figg.
14/19) vivessero in lagune sovrasalate. Si
deve allora ammettere che i resti scheletrici di questi animali
siano il prodotto del trasporto delle loro carogne durante le
piene dei torrenti che confluivano nelle lagune; oppure che gli
stessi resti siano stati introdotti nelle bancate gessose dopo
la formazione di queste. Nel primo caso dovremo trovare le ossa
degli animali, insieme con altro materiale trasportato dai
torrenti, disperse direttamente dentro le bancate gessose e
disposte parallelamente alle lamine che le costituiscono. Nel
secondo, invece, ci aspettiamo di riscontrare delle cavità o
delle fessure che, attraversando e interrompendo le bancate
gessose, abbiano consentito l'accumulo delle ossa. Ebbene,
questo secondo è il caso che effettivamente si è verificato in
campagna. Le ossa, quelle più grandi e quelle minutissime quali
sono i dentini dei piccoli roditori, si trovano concentrate in
cavità irregolari, lisciate e rotondeggianti, del tipo di
quelle note nelle aree carsiche attuali (Fig.
12); oppure in fessure nette, che tagliano
perpendicolarmente gli strati gessosi e sono collegate a formare
una specie di reticolato che permea la roccia in maniera
pervasiva (Fig. 13). Dentro alle cavità e alle fessure le
ossa si trovano come se fossero contenute in una pasta (matrice)
di argilla verdastra, che ingloba anche ciottoli di calcari
stromatolitici e conchiglie di ambiente salmastro (come le Valli
di Comacchio). La stessa pasta argillosa, con gli stessi
ingredienti, si trova alla sommità delle bancate della Vena del
Gesso e rappresenta localmente la Formazione a Colombacci, che
separa le evaporiti della Gessoso-solfifera dalle Argille
Azzurre dei calanchi pliocenici e pleistocenici (vedi cap.
precedente). In essa però non si conoscono resti così ricchi
di ossa di animali terrestri. Ecco, allora, che il quadro si fa
decisamente complicato, quasi come un giallo, e come tale va
indagato.
Se ci si mette pazientemente a
contare i dentini dei roditori (sono fino a migliaia per
chilogrammo di pasta argillosa, Fig. 14) e a riconoscerli per posizione (ad es.,
incisivo, premolare, ecc.) e per appartenenza alla mandibola o
alla mascella, si vede che sul fondo delle cavità
rotondeggianti i conti sono in pareggio. In altri termini, il
numero di elementi destri e sinistri è lo stesso, sia per le
mandibole che per le mascelle. Lo stesso capita per gli arti,
posteriori e anteriori. Ciò vuol dire che nella cavità sono
caduti scheletri completi, anche se a pezzi. E difficile
aspettarsi una situazione del genere a seguito di trasporto
torrentizio. Essa è, invece, assai comune negli anfratti
rocciosi in cui i predatori, primi fra tutti gli uccelli,
portano le loro prede, soprattutto topi, per gustarli in santa
pace, rigurgitando poi i resti scheletrici. Questo meccanismo
alimentato ha lo stesso effetto di una buona centrifuga per
concentrazione. Con questa serie di dati e di induzioni,
possiamo tentare una sommaria ricostruzione della storia che ci
è suggerita dalla nuova fauna (Figg.
15/19).
Al termine dell'ultimo ciclo
gessoso non è avvenuta la solita inondazione marina dal Mar
Rosso (come ipotizzato sopra), perché quel meccanismo ciclico
è stato sconvolto da un evento intenso e esteso a quasi tutta
l'area circummediterranea. Questo evento ha portato alla
costituzione di nuove fasce montuose (note come Catene
Intramessiniane). A un processo di questo genere si accompagna
una vera rivoluzione geografica, con interruzione di stretti,
apertura di nuove vie d'acqua, sollevamento di dorsali, catture
e deviazioni di grandi sistemi fluviali. E' capitato così che
Mar Ionio e Adriatico con l'intera Pianura Padana, allora
sommersa, diventassero un'appendice della grande massa di acqua
dolce o salmastra, nota come Paratetide un immenso lago-mare
esteso a comprendere l'intera Pianura Pannonica, il Mar Nero, il
Mar Caspio e il Mar d'Aral). Ionio e Adriatico si sono così
rapidamente addolciti, anche per 1Ingente contributo delle
precipitazioni condizionate dall'imponente arco alpino
occidentale completamente emerso e dalla dorsale appenninica in
sollevamento. Anche il bacino della Vena del Gesso veniva
incorporato proprio nel fronte in deformazione e in sollevamento
della Catena Intramessiniana e subiva poi l'effetto della nuova
inondazione salmastra proveniente dalla Paratetide. Questa
portava al progressivo deposito di argille con conchiglie di
ambiente salmastro della Formazione a Colombacci. L'inondazione
e i suoi depositi raggiungevano in ritardo le alture gessose più
piegate e sollevate, lasciando tempo all'incisione torrentizia
di scavare anfratti e roccioni carsici, per il felice prosperare
di gran numero di falchi e delle rispettive prede.
Successivamente, l'inondazione riempiva con le sue argille le
cavità, preservando le ossa, già concentrate, altrimenti
destinate a lenta ossidazione. Ma sul fronte della catena,
proprio lungo la Vena del Gesso, gli sforzi deformativi non
erano ancora esauriti e si concretizzavano in una intensa fase
di fratturazione in blocchi delle bancate gessose, segnata da
frequenti e intensi terremoti. Le argille della Formazione a
Colombacci, che si stavano depositando sopra le bancate gessose,
per effetto di questi terremoti venivano come risospese
nell'acqua del bacino (fluidificazione) e iniettate, per effetto
del loro stesso peso, entro le fratture e le fessure più fini
della sottostante roccia gessosa. Durante questo processo di
improvvisa iniezione le fratture che si aprivano attraverso
precedenti cavità carsiche, già riempite di ossa, consentivano
al fluido ricco di argilla di inglobare i frammenti di ossa e di
iniettarli, insieme all'argilla, fin nelle fessure più lontane
e profonde, alla base della stessa successione gessosa. Ecco così
svelato, seppur in maniera semplificata, il rebus delle faune
messiniane terrestri della Cava Monticino trovate dentro le
bancate gessose.
Le stesse faune, in condizioni
identiche, sono state trovate anche a Borgo Tossignano sul greto
del Santerno. Purtroppo quel giacimento è stato distrutto dai
recenti lavori di costruzione di una traversa per moderare
l'erosione dell'alveo. Giacimenti simili dovrebbero trovarsi in
altri tratti della Vena del Gesso dove ci sia stata, durante il
Messiniano, emersione precoce, sviluppo di carsismo e
fratturazione collegata alla deformazione in atto durante la
deposizione delle argille della Formazione a Colombacci. Ecco un
tema di indagine che gli appassionati di geologia potrebbero
svolgere durante le loro escursioni sulla Vena del Gesso.
Come tutte le popolazioni
terrestri, anche questa fauna, per espandersi, deve avere
seguito vie naturali di migrazione per propria tendenza
all'espansione oppure sotto la pressione di sconvolgimenti
naturali (siccità, carestie, drastici cambiamenti climatici,
grandi terremoti, grandi eruzioni vulcaniche, ecc.). In ogni
caso, dalla composizione della fauna, percorrendo il cammino a
ritroso, potremo individuare la patria da cui proviene. Ebbene,
molte delle specie trovate al Monticino di Brisighella hanno
provenienza sud-orientale, dalla Penisola Balcanica e dall'Asia
Minore. Sono scarse, invece, le affinità con le faune terrestri
dell'Europa centro-occidentale. Ciò è in accordo con
l'imponente inondazione salmastra dalla Paratetide fino all'alto
Adriatico nel Messiniano tardo. Suggerisce anche che durante
l'emersione precedente (come pure durante i vari disseccamenti
alternanti alle inondazioni marine, anch'esse di probabile
provenienza sud-orientale) i ponti continentali fossero così
vasti da facilitare la migrazione. Le vie dell'Europa, invece,
erano precluse dalla barriera fisica e soprattutto climatica
delle Alpi e dell'Appennino. Non a caso, mentre nell'area
ionico-adriatica avveniva l'inondazione salmastra, in quella
siculo-tirrenica (come anche in Spagna) si depositavano ancora
gessi e le faune terrestri circostanti le lagune erano
completamente diverse da quella del Monticino.
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