Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974
          

ORIGINE E STORIA DEL GESSO

    

Franco Ricci Lucchi

    
Per capire come si è formato un qualsiasi corpo roccioso, occorre prima di tutto osservarne la forma e la geometria: anzitutto, vedere se è stratificato, e nel nostro caso lo è con evidenza, anche da lontano. Poi, notare da quali materiali sono costituiti gli strati, che spessore hanno, qual è il loro ordine di sovrapposizione, l'epoca e l'ambiente in cui si sono accumulati. E ancora: con quali altre formazioni sono a contatto, e il contesto geologico in cui si inseriscono.
 
Per fare tutto questo, occorre guardare le rocce che ci interessano sia da vicino (e anche toccarle con mano) sia da lontano. Da quest'ultimo punto di vista, è il contesto geologico che possiamo apprezzare meglio. Se in una bella giornata ci portiamo nel paese di Tossignano, poco fuori l'abitato, abbiamo una splendida vista panoramica sulla valle del Santerno. Sul versante sinistro, quello opposto a noi, si vede tutta una successione di strati che, da sinistra, ovvero dai più antichi, consiste di arenarie giallastre e marne grigie (Formazione Marnoso-arenacea), poi di gessi in bancate potenti, infine di argille grigio-azzurre incise da calanchi. In testa a vari calanchi si notano lenti giallastre di ghiaie e sabbie. I gessi, dunque, stanno in mezzo a questa successione, che è definibile come clastica o detritica, essendo costituita da detriti portati in mare da antichi fiumi (da 20 milioni a meno di 1 milione di anni fa). Il mare copriva allora tutta la nostra regione; per trovare montagne e terre emerse bisognava arrivare al bordo delle Alpi a nord o nella Toscana marittima a ovest.
   
Il fondo marino si trovava ad almeno qualche centinaio di metri di profondità, e si abbassava continuamente per il fenomeno della subsidenza, come ancora oggi fa la Pianura Padana; poteva così ricevere grandi quantità di sedimenti detritici, che grosse frane e correnti sottomarine dense (dette di torbida) prelevavano dalle foci dei fiumi e trascinavano per chilometri e chilometri in fondo al mare, dove esistevano pendii, valli, canali e pianure. Il bacino subsidente romagnolo, che si estendeva in un primo tempo in Umbria, poi nelle Marche, era un antesignano della fossa padana (oggi riempita da sedimenti) e adriatica (colmata solo in parte). Si tratta di una classe di bacini sedimentari detti avanfosse, che si individuano alla fronte di catene montuose in crescita (Fig. 1, Fig. 2). Nel nostro caso era la catena appenninica a trovarsi in gestazione, per così dire, sotto il mare, da cui sarebbe emersa soltanto negli ultimi 1-2 milioni di anni. All'atto dell'emersione finale si sono sollevati e piegati anche gli strati più antichi che si erano accumulati nella fossa, ed ecco perché adesso li vediamo tutti inclinati e immergenti verso la pianura.
   

Fig, 1 - Il bacino padano rappresenta l'avanfossa della Catena Appenninica; esso è stato riempito da grandi volumi di detriti portati dai fiumi. Se immaginiamo di togliere i sedimenti di riempimento, che raggiungono spessori di vari chilometri, si vede che il fondo del bacino è accidentato come una catena di montagne. Vi sono dorsali e fosse, o valli; queste strutture sono state formate dalle forze tettoniche che hanno spinto la catena e la crosta terrestre sottostante verso l'Europa, facendo alzare l'Appennino e abbassare la zona antistante. (da Pieri & Groppi, 1981, in Ricci Lucchi, 1984)
      
Fig. 2 - Ricostruzione di un segmento dell'avanfossa appenninica, com'era quando la occupava un mare profondo e la catena era "in costruzione" sott'acqua, una decina di milioni di anni fa. Dal fianco del bacino e dalle Alpi, più a nord, scendevano impetuose correnti d acqua torbida che depositavano strati di sabbia e fango sul fondo piatto. Numerose e frequenti erano anche le frane sottomarine sui pendii (da Ricci Lucchi, 1984)

    
Se il contesto geologico in cui si sono formati i gessi romagnoli è questo, ci aspetteremmo che anche essi siano sedimenti detritici accumulati in mare profondo. Altrimenti cosa ci stanno a fare in una successione di quel tipo? Invece la roccia gessosa è formata, anzitutto, da un solo minerale, il gesso appunto, e non da detriti di rocce diverse. In secondo luogo, sappiamo che questo minerale si forma nelle saline (Fig. 3); originariamente, dunque, si trova sciolto nell'acqua di mare e l'intensa evaporazione di quest'ultima lo fa precipitare sul fondo. Si tratta in altre parole, di un sale, come quello da cucina; solo che mentre questo è cloruro di sodio, il gesso è un solfato di calcio, e precipita prima del cloruro quando si fa evaporare l'acqua. Si può allora immaginare, come ambiente di origine del gesso, una salina naturale, come ve ne sono oggi, lungo le coste e in estuari, soprattutto in zone subtropicali a forte evaporazione e semi-aride. Ma si tratta, per l'appunto, di zone costiere; come si concilia, questa evidenza, con quella che abbiamo ricavato dai sedimenti detritici che Precedono e seguono i gessi nel tempo (sono, stratigraficamente parlando, sottostanti e sovrastanti, rispettivamente)? Evidenza che, ricordiamo, ci parla di mare profondo, di frane e correnti sottomarine, di sedimenti portati al mare dai fiumi? Inoltre le dimensioni delle "saline" del Messiniano erano enormi, se confrontate con quelle attuali, e si estendevano per tutto il Mediterraneo.

Ci sono due modi di spiegare l'apparente contraddizione: uno consiste nell'immaginare che le condizioni di mare profondo si siano interrotte prima del deposito dei gessi, e siano riprese dopo. Un sollevamento del fondo marino avrebbe instaurato l'ambiente costiero per un certo periodo; poi la subsidenza sarebbe ripresa facendolo sprofondare di nuovo. Se un sollevamento della crosta non è avvenuto, vi è un'altra possibilità: che sia variato il livello del mare. Prima si sarebbe abbassato, poi, dopo il deposito dei gessi, si sarebbe rialzato. Nel nostro caso, un forte abbassamento del livello marino potrebbe essere stato causato proprio dall'evaporazione (la stessa causa della sedimentazione del gesso, che viene detta, appunto, evaporitica), conseguente per esempio a un cambiamento climatico come una glaciazione. Il successivo innalzamento del livello marino si può attribuire di nuovo a un cambiamento climatico di segno opposto (scioglimento di ghiacci) o a un fenomeno arealmente più limitato, come una specie di inondazione marina (trasgressione), che avrebbe sommerso la salina e interrotto la precipitazione evaporitica, facendo tornare l'apporto di particelle detritiche. Ma vi è un'altra possibile spiegazione della presenza gessi in una successione detritica: che anche i gessi sia detritici. Essi si sarebbero formati sì in saline costiere, poi queste sarebbero state spazzate da tempeste o sottoposte a erosione fluviale: i cristalli di gesso, abbastanza fragili, si sarebbero rotti facilmente producendo un detrito gessoso, e questo sarebbe stato trasportato sotto il mare da correnti o frane. In questo modo, la profondità del bacino di accumulo non sarebbe cambiata, e nemmeno i meccanismi di sedimentazione e trasporto. Dovremmo semplicemente dire che il gesso non rappresenta direttamente un ambiente di salina, che doveva situarsi sui bordi o su un bordo dell'avanfossa appenninica.
Tra queste due ipotesi sull'ambiente di deposizione dei gessi, non possiamo semplicemente scegliere quella che ci piace di più, ma metterle entrambe a confronto coi fatti, e vedere se questi si accordano con una e smentiscono l'altra, o se eventualmente ci suggeriscono altre spiegazioni ancora. Cerchiamo allora di osservare meglio i nostri strati di gesso. Una prima cosa che notiamo, già da lontano (Fig. 4, Fig. 5), è il diverso spessore dei banchi di gesso; alla base della formazione sono davvero imponenti (uno solo può raggiungere i 30 m), verso l'alto diventano più sottili (ma sono sempre dell'ordine di qualche metro). A prima vista, tutti i banchi sono simili, a parte lo spessore, e in effetti sono composti dallo stesso materiale, gesso in cristalli. I cristalli sono evidenti a occhio nudo, e questa varietà di gesso si chiama selenite. Guardando meglio, cominciamo ad accorgerci che vi sono cristalli più grandi (a luoghi addirittura enormi) e più piccoli, anche nello stesso strato o banco. Poi, certi hanno una forma caratteristica (quella più comune è detta a ferro di lancia o a coda di rondine: vedi Fig. 6), mentre altri ce l'hanno irregolare o dall'aspetto decisamente frammentario e particolato (Fig. 7) Inoltre quelli meglio sagomati e a punta mostrano spesso un orientamento quasi uniforme, con le punte stesse volte verso il basso; altri hanno invece orientamento casuale. Infine vi sono cristalli limpidi e cristalli torbidi questi ultimi, per l'esattezza, hanno un nucleo scuro, opaco, e un alone trasparente. Ovviamente cominciamo a sospettare che queste differenze abbiano un significato per il nostro problema, e cioè quello di capire modo e ambiente di origine del gesso.


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Fig. 3 - Un esempio di salina (o di quel che ne resta) nell'Isola di Salina dell'arcipelago eoliano. (foto F. Ricci Lucchi)
Fig. 4 - Una panoramica della formazione gessosa nella Vena del Gesso in destra Santerno. (foto F. Ricci Lucchi)
Fig. 5 - Sezione stratigrafica, che mostra la successione dei banchi di gesso alla vecchia Cava Paradisa di Borgo Tossignano. (modificata da Vai & Ricci Lucchi, 1976)
Fig. 6 - Grossi cristalli di gesso (selenite) alla base di un banco.I cristalli sono rimasti nella posizione di crescita, con punte rivolte verso il basso. Le punte erano conficcate nel fango di una laguna. Questo orientamento è noto anche come "regola del Mottura". (Foto Ricci Lucchi)
Fig. 7 - Cristalli di selenite rotti e accumulati caoticamente a formare una breccia, rinsaldata da detrito di gesso e carbonato di calcio. (foto G.B. Vai)

Tra l'altro, vediamo anche che i banchi non sono fatti interamente del minerale gesso; vi si trova anche del calcare e della marna (misto di calcare e argilla), soprattutto come pellicole o "matrice" che avvolgono i cristalli di gesso (preferenzialmente quelli irregolari e frammentari). Più raramente, si rinvengono sparsi resti di legno, carbonizzo o addirittura gessificato (sostituito da gesso). Mancano invece cristalli di sale cloruro, ovvero salgemma. Se percuotiamo poi uno dei cristalli opachi, sentiamo odore di catrame, segno che il gesso contiene sostanza organica trasformata in idrocarburi. Questo è un indicatore importante, come vedremo tra poco. Lo stesso odore lo fanno delle marne scure, facilmente sgretolabili in foglietti e lastrine, che separano i banchi di gesso; dunque anche queste rocce argillose contengono in abbondanza sostanza organica sfuggita alla decomposizione. Normalmente la sostanza organica si accumula nel sedimento marino sotto forma di carogne di organismi che vivevano nelle acque superficiali, dove c'è il massimo nutrimento (alghe, batteri, meduse, ecc. = plancton) o sotto, come i pesci. Guarda caso, le marne scure tra i gessi (che troviamo poi anche, per vari metri, sotto alla formazione), contengono resti fossili di pesci, insieme a resti e larve di insetti, foglie, piante varie e così via. Ovviamente questi resti fossili ci dicono molte cose sull'ambiente dei gessi, anche se parte di essi è stata trasportata dal gioco delle correnti. Il fatto stesso che ne ha permesso la conservazione è molto indicativo: rivela che mancava l'ossigeno nelle acque più profonde del bacino. Infatti, in presenza di ossigeno i resti organici si decompongono rapidamente, come vediamo fare alle foglie d'autunno; nell'acqua marina vi è normalmente disciolto dell'ossigeno, e quindi di norma i resti organici che cadono sul fondo non si possono conservare. A meno che l'acqua presso il fondo ristagni, ovvero la circolazione si interrompa per un qualche motivo. Allora l'ossigeno è consumato e l'ambiente, da ossidante, diventa riducente. Tra lo strato di marna scura e quello di gesso sovrastante vi è talora una roccia calcarea sottilmente stratificata; si tratta di una stromatolite (Fig. 8), derivante dalla cementazione di Tappeti algali (o batterici). Questi sono fatti di filamenti appiccicosi di alghe primitive o batteri, che possono trattenere particelle di sedimento con cui vengo a contatto. I resti delle alghe non si sono conservati, indicando che l'ossigeno era presente in questa fase; quelli che restano nella roccia sono gli straterelli di particelle catturate. Queste strutture sono molto indicative, non solo per la presenza di ossigeno, ma anche di luce, senza la quale gli organismi non possono svolgere la fotosintesi. Ciò vuol dire che la profondità dell'acqua era molto scarsa dove si impostavano i tappeti. Ma quando si depositavano i gessi, le condizioni restavano le stesse? Oppure aumentava la profondità e l'ossigeno era consumato? La risposta è stata trovata nei primi cristalli di gesso che poggiano sulle stromatoliti calcaree; guardandoli attentamente con una lente o al microscopio, si vede che la zona centrale, più scura e opaca, non contiene solo impurità argillose e organiche, ma un feltro finissimo di filamenti, simili a quelli di un tappeto. Sono rivestimenti calcarei dei famosi filamenti algali, che dunque sono stati inglobati e conservati nel gesso man mano che il cristallo cresceva. Ne deriva che il gesso "nasceva" e si sviluppava entro i tappeti algali, quindi non nell'oscurità di un bacino profondo, ma ai margini di esso, in una laguna con poca acqua. Con l'evaporazione sempre al lavoro, il livello dell'acqua calava e di conseguenza la laguna diventava una salina evaporitica. Se il livello calava troppo, la salina andava a secco; i sedimenti e i cristalli, oltre a ossidarsi, restavano esposti all'erosione dei fiumi o delle mareggiate. I cristalli di gesso potevano così essere rotti e trasportati come detrito. Questo comporta un fatto molto interessante: negli strati di gesso si possono trovare sia cristalli normali, nella loro posizione di crescita (con le punte rivolte verso il basso), sia frammenti di cristalli accumulati meccanicamente come ghiaia, breccia o sabbia di gesso. Quest'ultima, cementandosi, diventa una gessarenite, in altre parole un'arenaria fatta di gesso.

Le ipotesi dell'origine evaporitica e dell'origine detritica del gesso non sono dunque necessariamente in conflitto tra loro, nel senso che l'origine prima del gesso è per forza quella di un sale; dopo la deposizione, però, il gesso può essere rimosso. Si tratta allora di vedere quale è l'ambiente dove è avvenuto l'atto finale della deposizione, e confrontarlo con quello dell'origine primaria per vedere se i due coincidono o sono diversi. In un ambiente costiero, dove il livello dell'acqua subisce marcate oscillazioni e con esso il livello di energia meccanica (acqua calme o agitate), noi possiamo trovare sia cristalli in posto sia detrito di gesso. Quindi, pure ammettendo che parte del nostro gesso sia stato rimosso dalla salina d'origine, possiamo escludere che sia stato messo in posto in un mare profondo. Da quanto detto sopra noi vediamo che è possibile ricostruire i processi di origine di una roccia dagli indizi che essi hanno lasciato nella roccia stessa; basta interpretare questi indizi alla luce dei processi che agiscono nel mondo attuale. In questo modo, usando cioè il criterio che geologi chiamano dell'attualismo, possiamo però arrivare solo fino a un certo punto. Infatti non vediamo oggi formarsi, in alcun ambiente del nostro pianeta, banchi di gesso così potenti come quelli della Vena del Gesso. Né tanto estesi e diffusi: sappiamo infatti che formazioni simili si depositavano alla stessa epoca (Miocene superiore o Messiniano: tra 6,5 e 5,5 milioni di anni fa circa) in varie parti del Mediterraneo, compresi vasti bacini oggi coperti dal mare. I volumi di sali accumulati sono enormi, e per ottenerli occorre far evaporare quantità incredibili di acqua di mare. E possibile che ci sbagliamo nel paragonare l'ambiente dei gessi alle poche e limitate saline naturali attuali? Eppure vediamo crescere anche oggi cristalli di selenite singoli o a "ciuffi", nel fango o entro tappeti algali (Fig. 9); vediamo formarsi detrito di gesso, sabbia di gesso setacciata dalle onde, e così via. Se prendiamo in esame, cioè i singoli caratteri della roccia gessosa e degli altri strati associati, li possiamo spiegare come prodotti di processi e meccanismi identici a quelli che agiscono oggi. Non troviamo però un uguale ambiente. Viene fatto, allora, di pensare che il Mediterraneo, nel Miocene superiore, si sia venuto a trovare in condizioni un po' particolari. Anche oggi vediamo che il suo equilibrio idrologico è molto precario, e infatti temiamo molto per il suo inquinamento. Ciò perché è un mare interno, non chiuso ma quasi; la sua comunicazione con l'Oceano Atlantico, a Gibilterra è un passaggio stretto. Da lì entra acqua dall'oceano in superficie, mentre esce una corrente dal Mediterraneo sul fondo. La corrente di uscita viaggia sotto quella di entrata perché è fatta di acqua più densa, e la maggior densità è dovuta all'evaporazione che concentra i sali disciolti. In altre parole, il bilancio idrologico del Mediterraneo è in deficit; le entrate (piogge, fiumi, apporti dall'Atlantico sono inferiori alle perdite (corrente di uscita + evaporazione: vedi Fig. 10A). Basterebbe chiudere un po' di più il "rubinetto" di Gibilterra, lasciando affluire acqua dall'Atlantico ma impedendo la corrente di uscita (Fig. 10B e il "Mare Nostrum" diventerebbe un grosso lago, la cui acqua via via se ne andrebbe in evaporazione. Diventerebbe dunque una gran salina, suddivisa in "vasche" minori (i suoi vari bacini), e potrebbe giungere fino al disseccamento completo (Fig. 10C).

Ed è proprio questo che i geologi hanno immaginato, non senza contrasti e manifestazioni di incredulità: che le comunicazioni tra Atlantico e Mediterraneo si siano in interotte nel Messiniano, promuovendo la deposizione evaporitíca in tutto o quasi il Mediterraneo. Si potrebbe obiettare che, facendo evaporare tutta l'acqua del mare, otterremmo una crosta di sali spessa qualche metro soltanto; come mai allora abbiamo decine di metri di gesso? Questo non è un grosso problema: basta ammettere che la chiusura non fosse permanente o totale, e che il Mediterraneo ricevesse acqua, e quindi apporto di sali, dall'oceano. Anche in una salina occorre garantire un afflusso continuo dal mare per avere una quantità di sale; quindi non si deve isolare completamente il bacino basta mantenere il bilancio in spareggio, impedendo la corrente di uscita e facendo sì che tutta l'acqua in entrata evapori. Si può così mantenere a lungo la concentrazione necessaria a far avvenire la precipitazione dei sali.

Se torniamo a osservare la stratigrafia della Vena del Gesso ci rendiamo conto che il modello del Mediterraneo ridotto a salina non è forse pura fantasia. Esso ci aiuta a spiegare non solo il grande spessore dei banchi, ma anche la ritmicità della stratificazione. Infatti gessi, marne bituminose e calcari stromatolitici (i tre tipi base di roccia che abbiamo descritto più sopra) si alternano e si ripetono in un ordine fisso. Tale ordine corrisponde a un ciclo ripetuto di eventi; ed essendo registrato da sedimenti, si chiama appunto ciclo sedimentario (Fig. 11).


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Fig. 8 - Struttura laminare, detta stromatolitica e dovuta ad alghe o batteri che si impiantavano sui bordi della laguna sul cui fondo cominciavano a crescere i cristalli di selenite. (foto G. B. Vai)
Fig. 9 - In questo blocco, caduto da una parete della Vena, si vedono delle specie di coccarde di cristalli di gesso, diversi da quelli tipici di selenite. Questi si sviluppavano con gli assi di allungamento adagiato sul fondo del bacino, come avviene in diverse saline naturali. (foto F. Ricci Lucchi)
Fig, 10 - Uno spaccato dello stretto di Gibilterra (A) mostra le acque del Mediterraneo che escono in Atlantico. I valori indicati sono qelli della salinità. Quelli più alti si trovano nella corrente di uscita, che è più densa dell'acqua atlantica a causa dell'evaporazione subita. In  B, si immagina di abbassare un po' il livello del mare (o innalzare la soglia), per cui la corrente densa torna indietro e l'acqua viene ricircolata all'interno del Mediterraneo. In C, addirittura, la soglia viene chiusa, provocando un collasso del livello marino nel bacino isolato. I casi  B e C rappresentano situazioni verificatesi probabilmente nel Messiniano.
Fig. 11 - I banchi della Vena mostrano aspetti, o facies, variabili dalla base al tetto. Poichè questi aspetti si ripetono più volte nei diversi banchi, si parla di cicli sedimentari. Noi abbiamo già visto le facies F2 (fig. 8) e F3 (Fig. 6); vedremo di seguito le facies F4 e F6 (Fig. 12 e 14), nonchè le strutture a "cavolo" (Fig. 13). (da Ricci Lucchi & Vai, 1983)  

Partiamo, ad esempio, dalle marne scure e "fetide": oltre a intercalarsi ai banchi di gesso, si trovano anche sotto il primo banco ("marne di letto" nel gergo minerario; ricordiamo che la formazione gessifera era sfruttata per lo zolfo). Esse indicano un ambiente stagnante e relativamente profondo, ma non salino; ci segnalano che la circolazione e la comunicazione con l'oceano erano ridotte, la salinità non era abbastanza alta per far precipitare i sali, in particolare il solfato. Questo ambiente, detto euxinico per analogia col Mar Nero, predispone le condizioni adatte alla precipitazione; durante la sua permanenza, aumenta la concentrazione dei sali disciolti. Diminuisce intanto la profondità e quando la luce penetra a sufficienza si instaurano i tappeti algali. Si tratta di alghe e batteri che sopportano forti salinità (organismi come questi sono tra i primi abitanti della Terra); è infatti entro gli strati stromatolitici che vediamo formarsi i primi cristalli isolati di gesso (Fig. 8). La crescita del gesso diventa poi sempre più continua e massiccia: i cristalli formano delle vere e proprie palizzate (Fig. 12), che si sviluppano verso l'alto. La loro forma a coda di rondine, con una linea di divisione in mezzo, dipende dal fatto che sono dei "geminati" (come dei gemelli siamesi che crescono insieme, attaccati, ma in direzione diverse). L'orientamento delle punte verso il basso riflette la posizione naturale di crescita. Le punte spesso convergono in ciuffi che, quando sporgono alla base del banco, sono chiamati cavoli o mammelloni (Fig. 13).

Col calare del livello marino da un lato, l'accumulo dei cristalli dall'altro, la salina o laguna si viene colmando e il gesso comincia a sporgere dal pelo dell'acqua durante le basse maree e viene attaccato dalle onde durante le mareggiate. Detrito gessoso va così a ricoprire le palizzate che eventualmente riprendono la crescita, e così via ripetutamente finché la salina non si prosciuga del tutto e la precipitazione del gesso si interrompe. Le piogge, anche se infrequenti a causa del clima più arido dell'attuale, possono allora sciogliere una parte del gesso esposto sulle rive, ridepositandolo poi sotto forma di noduli negli interstizi del terreno. Il solfato che forma i noduli (masserelle biancastre) non è però gesso, ma anidrite, minerale che non contiene acqua, come il gesso, nella sua struttura cristallina Calando sempre il livello dell'acqua, i cristalli di gesso cominciano a emergere e vengono sottoposti a degrado e erosione; in occasione di piogge torrenziali, i corsi d'acqua si ingrossano e trascinano in massa detrito e interi cristalli di selenite, abbandonandoli allo sfocio nelle "pozze" d'acqua residua (Fig. 14).


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Fig. 12 A - Cristalli in parte interi (in posto), in parte rotti, entro un banco di gesso; i cristalli sono fittamente addossati e formano dellle specie di palizzate, evidenziate dagli accenni di stratificazione. (foto G.B. Vai)
Fig. 12 B -Particolare di palizzate gessose; i cristalli sono tappezzati da fine detrito carbonatico (bande chiare). (foto G.B. Vai)
Fig. 13A e 13B  - Due aspetti delle strutture a "cavolo", o "mammellone", che si vedono alla base dei banchi di gesso quando viene asportata la marna bituminosa, più erodibile. Rappresentano "ciuffi" e "cespugli" di cristalli che si aggregavano durante la crescita sul fondo fangoso del bacino. (foto F. Ricci Lucchi)
Fig. 14 - Qui gli aggregati gessosi, insieme a cristalli singoli e a frammenti, non sono più in posto, ma sradicati e impastati di argilla. Sono stati distesi e trascinati da colate, prodotte da piene torrentizie, o ammassati da onde di tempesta sulle rive della "salina". (foto F. Ricci Lucchi)

Se, a questo punto, immaginiamo che si riapra il "rubinetto" di comunicazione con l'Atlantico, entrerà nel Mediterraneo nuova acqua marina col suo carico di sali. Risalirà il livello e le aree disseccate saranno di nuove sommerse; l'evaporazione tornerà a concentrare i sali nell'acqua, ma, prima che possa riprendere la precipitazione di gesso, si accumulerà del fango ricco di sostanza organica e resti di pesci, che formerà il "partimento" o interstrato di marna scura. E così parte un altro ciclo. Di questi cicli se ne registrano più di una dozzina, solo che, dopo i primi 4-5, la porzione di gesso conservatasi in posto nei banchi è sempre minore, e prevale via via il gesso detritico eroso e trasportato da tempeste e piene fluviali. Poiché diminuisce anche lo spessore dei banchi, possiamo ritenere che nei cicli più recenti si sia formato meno gesso e che la durata dei cicli stessi sia stata inferiore a quella dei primi. La precipitazione evaporitica del gesso cesserà definitivamente per la diluizione dei sali operata da una grande trasgressione proveniente, però, non dall'Atlantico ma dai bacini che coprivano gran parte dell'Europa orientale. Queste acque erano salmastre anziché francamente saline. Un residuo odierno di questi bacini è il Mar Caspio.

 

Speleo GAM Mezzano (RA)