Brisighella e val di Lamone a cura di Pietro Malpezzi, Società di Studi Romagnoli, Cesena, 2002

      

L’ABBANDONO IN ETÀ protostorica DI ALCUNE CAVITÀ NATURALI DEL TERRITORIO DI BRISIGHELLA. I CASI DELLA GROTTA DEI BANDITI E DELLA TANACCIA

       

Luciano Bentini

     
       

1. L’ambiente naturale 

La grotta dei Banditi fu esplorata e descritta sommariamente dal De Gasperi (1), il quale intuì che nel terriccio costituente il suolo del vestibolo «potrebbe essere utile scavare per ricercare industrie primitive» e segnalò «nella parete occidentale, ad altezza di un metro e mezzo circa dal suolo... una nicchia larga e profonda poco più di un decimetro, fatta ad arte per riporvi qualche oggetto».

Malgrado tali osservazioni, fino al 1973 nella grotta non fu effettuato alcuno scavo, benché fosse nota agli abitanti di monte Mauro che nel periodo bellico l’utilizzarono come rifugio, dopo che era stata frequentata da partigiani operanti nella zona. Le sue coordinate geografiche sono le seguenti: F. 99-IV-SE (Casola Valsenio), Long. 0°45’38", Lat. 44°14’12" W. M. Mario; si apre q. 473 (2), impostata su una frattura sub-verticale (probabilmente una faglia di modesto rigetto) che si sviluppa fino al culmine del rilievo, una ventina di m sotto la cresta della parete meridionale del baluardo di gesso che, costituendo l’appendice occidentale di monte Mauro (m 515 s.l.m.), domina la vallata del Sintria. Vi si perviene seguendo uno stretto sentiero a mezza costa diretto verso W, che si sviluppa lungo una cengia corrispondente ad un giunto di strato, e che probabilmente fu tracciato in età preistorica.

L’ingresso (tav. i, A) è in parte ostruito da grossi massi franati anticamente ed immette in una saletta il cui asse è diretto S-N, lunga m 9, larga nel suo punto più ampio m 4,60 ed alta nella parte centrale m 3. Nelle pareti sono state ricavate diverse nicchie («vaschette») simili a quelle da tempo note nella vicina grotta del Re Tiberio (3) e in altre cavità naturali romagnole frequentate in età protostorica e medievale (4); tali nicchie vengono interpretate come supporti per infiggere i pali disposti trasversalmente alle pareti onde sostenere pelli o tessuti, come protezione contro lo stillicidio ed il freddo durante le stagioni più inclementi. Poiché si trovano a diversi livelli e talora alla stessa altezza nelle pareti opposte, sembra potersi ipotizzare che siano state scavate in epoche successive a causa del progressivo innalzamento del piano di calpestio dovuto al riempimento di origine antropica. Malgrado siano state ricavate usando strumenti metallici, paiono essere molto antiche, poiché sulle loro superfici si sono formati sottili veli di concrezioni gessoso-calcaree, indice di condizioni climatiche caratterizzate da piovosità. Attualmente invece il vestibolo della grotta è pressoché asciutto e solo nel periodo invernale-primaverile si ha qualche modestissimo stillicidio (5).

Sul pavimento si è accumulato uno spesso riempimento di fine terriccio di origine eolica, più potente ed inclinato verso l’interno in prossimità dell’ingresso.

A W del vestibolo si apre un altro piccolo vano (tav. i, B), largo inizialmente m 4,30, che si sviluppa per m 5,50 parallelamente al baluardo gessoso con notevole dislivello positivo, restringendosi ed abbassandosi quasi subito; anche in esso sono state scavate nicchie e gradini e nel settore S (corrispondente alla falesia) v’è un muretto a secco lungo 2 m (tav. ii, D) costruito con pezzame di piccole dimensioni di selenite, cementato ed incrostato da concrezioni degradate, il che fa supporre una notevole antichità del manufatto. Il suolo è quasi ovunque costituito dalla roccia viva, con pochi ed esigui lembi di riempimento di origine eolica.

Nella parete N, opposta all’ingresso, si apre un cunicolo (tav. i, Q) che, prima di effettuarvi il saggio di scavo, iniziava in foggia di basso pertugio a sezione triangolare, alto m 0,75 e largo alla base m. 1,25, diretto S-N, oltre il quale la grotta continua con uno sviluppo totale di m 77, una lunghezza di m 63 e con un dislivello negativo di m 2, non tenendo conto però del ramo inferiore (6). 

2.    Lo scavo e la stratigrafia. I reperti

Il saggio di scavo, che ha raggiunto una profondità massima di m 3, è stato effettuato tra il febbraio e il novembre 1973 nella parte più interna del vestibolo, nei primi metri del cunicolo e nel livello inferiore venuto in luce durante i lavori; infatti è risultato che, alla profondità di m 1,05 e m 3 dal piano di calpestio, si aprono alcune strette litoclasi (tavv. i e ii, a-b-g), una delle quali (b) praticabile e che permette pertanto di accedere ad un sottostante dedalo di cunicoli comunicante anch’esso con l’esterno e caratterizzato dalla presenza di una piccola sorgente che, da testimonianze raccolte in posto, sarebbe scomparsa in seguito ad eventi bellici.

Il primo sondaggio, eseguito al centro del vestibolo in corrispondenza della sua larghezza massima (m 4,60: tavv. i e ii, sezz. 3-4), coincise casualmente con l’area ove si apre il pozzetto diaclasico a; i materiali scavati fecero nascere inizialmente grosse perplessità poiché si rinvennero associati, apparentemente senza alcun ordine stratigrafico, manufatti medievali e protostorici. Infatti alla profondità compresa tra m 1,30 e m 1,50, in un terriccio scuro poco compatto, quasi sciolto, vennero in luce frammenti di ceramica protostorica di color bruno e nerastro, una rozza scheggia di selce, un ciottolo di arenaria, varie ossa di animali e due frammenti di ceramica medievale. Successivamente, nelle immediate vicinanze (zona centrale del Settore 1, tav. i, alla profondità di m 1,40, si rinvennero uno strumentino di selce rosso-nera (tav. iii, 7), una chiave di bronzo romana (tav. iii, 8) e la base di un boccale di maiolica trecentesca, di cui in precedenza erano stati recuperati altri frammenti. Presso la parete E venne in luce un altro frammento di maiolica medievale alla profondità di m 1,30. Il rinvenimento della diaclasi a, che inizia a m 1,05 di profon­dità dall’attuale piano di calpestio, fornì la chiave per spiegare tale situazione; infatti essa fu utilizzata all’epoca dell’insediamento protostorico nella grotta come pozzetto di scarico per i rifiuti ed il vasellame rotto e fu tenuta appositamente aperta per lungo tempo mentre tutt’intorno si accumulavano i livelli antropici. Tale progressivo innalzamento del piano della grotta provocò infine l’obliterazione anche dell’imboccatura del pozzetto, ma rimase probabilmente una zona depressa che fu in seguito utilizzata, in particolare durante il medioevo, per accendere fuochi (i frammenti di mattoncini quivi rinvenuti servirono forse proprio come pietre da focolare) rimaneggiando i sedimenti e sconvolgendo la stratigrafia. Successivamente la polvere eolica livellò uniformemente il piano della grotta.

Il pozzetto diaclasico a fu scavato per una larghezza di m 0,80 ed una profondità di m 0,43 (cioè fino a m –1,43, ove diviene impraticabile). Conteneva un riempimento di terriccio poco consistente, friabile, con ciottoli di selenite disidratata e di arenaria arrossata dal fuoco e blocchi di terra più compatta di color nero-grigiastro perché contenenti frustoli di carbone e cenere. Da tale riempimento provengono molte ossa di animali (resti di pasti) e diversi significativi frammenti ceramici dell’antica età del bronzo, fra i quali sono da segnalare quelli appartenenti a vasi carenati (di cui uno fu successivamente restaurato: tav. iv, 1), simili a quello della Tanaccia di Brisighella rappresentato da Mansuelli e Scarani (tav. 19, sin.) (7), definito recipiente tronco-conico con fascia superiore leggermente rientrante e lieve svasatura sull’orlo liscio, attribuito allora all’eneolitico finale (livello culturale tipo Remedello) e considerato un pezzo unico in Italia. Vi si raccolsero anche una zanna di maiale o cinghiale ed una rondella d’osso forata ed accuratamente levigata, interpretabile come pendaglio (tav. iii, 2). Quasi adiacente al pozzetto, in prossimità della parete E (tav. i, F) si rinvenne un grosso focolare posto sopra alcuni massi di gesso crollati anticamente, alla profondità di circa m 1,30; tali massi erano molto anneriti e, sopra, il terriccio era concotto e misto ad abbondante carbone.

Alla base della diaclasi si è formato un cono detritico di terriccio contenente numerosi manufatti prevalentemente fittili, frammentati (tav. iv, 5-6-7), che furono raccolti in occasione della scoperta dei livelli inferiori; si segnalano inoltre alcuni fondi di vaso con base piana sagomata a tacco, un grosso frammento decorato a unghiate sotto il bordo (tav. iv, 4), un punteruolo d’osso (tav. iii, 9) ed una zanna con largo foro (tav. iii, 3). I livelli inferiori sono stati anch’essi indubbiamente frequentati dall’uomo in età protostorica, come testimonia la presenza di «vaschette» presso l’ingresso. Una «vaschetta» si ha anche nel vano sottostante il pozzetto diaclasico. 

Allargando lo scavo nel Settore i quasi da una parete all’altra, si poté constatare che l’associazione caotica dei manufatti interessava soltanto l’area sovrastante il pozzetto di scarico. Dove invece il riempimento non aveva subito rimaneggiamenti, si poté osservare la seguente stratigrafia (tav. ii, sez. 3-4):

–   i primi 10 cm erano costituiti da fini sedimenti di origine eolica, misti a ciottoletti per lo più di selenite, alla cui base v’era un esiguo livelletto di ciottoli di gesso e di frustoli di carbone di età molto recente;

–   dai 10 ai 40 cm di profondità si incontrò un livello di sabbia giallastra: vi si rinvennero frustoli di ceramica grossolana d’impasto, ossami, una sottile ansa di maiolica di color verdastro ed un frammentino di vetro sottilissimo, iridescente; tale strato è da correlarsi probabilmente al medioevo;

–   seguiva un livelletto di 5 cm costituito da selenite disidratata dal fuoco e carbone, passante ad un sottostante straterello di cm 10 di gesso misto a radici;

–   dalla profondità di cm 55 iniziava un potente livello antropico di color nerastro riferibile all’antica età del bronzo, che nell’angolo E della trincea perveniva alla profondità di m 1,90, ove era molto più spesso rispetto al margine W poiché ivi il riempimento giaceva su massi selenitici accatastati, crollati probabilmente in antico; nella fascia centrale il riempimento antropico raggiungeva invece m 2,40 (profondità alla quale s’incontrò la prosecuzione, in forma di esigua fessura, del pozzetto diaclasico a); nel diaframma sotto il grande masso inclinato da W a E (tav. i, L), che delimita il Sett. i e che si unisce al cunicolo costituente il Sett. v, la profondità raggiunta fu di m 2,60, in corrispondenza di massi selenitici sopra i quali furono visti uno strato di fine breccia di gesso spesso 40 cm ed un sovrastante livello nerissimo (focolare?) posto tra m 2 e m 2,20. 

Il Settore ii corrisponde ad una trincea diretta S‑N lungo la parete E (tavv. i e ii), tra il pozzetto diaclasico ed il limite N del grande masso inclinato; la sua lunghezza è di m 2,50 ed è largo meno di m 1 per la presenza del masso stesso. Lo scavo raggiunse la profondità massima di m 3 in corrispondenza delle litoclasi b e g di cui già s’è detto. La stratigrafia era pressoché corrispondente a quella dei Sett. i: alla profondità di m 1,15 venne rinvenuto un vaso di rozzo impasto frammentato ma pressoché completo, restaurato in seguito (tav. iv, 2), contenente all’interno gesso concrezionato e frammenti di boccaletti più fini, fra i quali metà circa di uno color marrone, globulare, tipo Polada.

–   Alla profondità di m 1,30, nell’angolo NE, si raggiunsero massi di gesso anneriti dal fuoco e a m 1,45 un focolare (che era probabilmente la prosecuzione di quello posto presso il pozzetto diaclasico del Sett. i): fra i molti frammenti ceramici misti a carbone e cenere, sono degne di nota due belle anse a gomito (tav. iii, 19).

–   Ad iniziare da m 1,90 di profondità, si incontrarono frequenti massi di gesso incastrati in una rientranza della parete (livello di scorrimento) fra i quali furono estratti: una fusaiola piatta intera (tav. iii, 17) e vari frammenti fittili: è degno di nota un bordino rovesciato verso l’esterno di un vasetto buccheroide lucidato a stecca con motivo decorativo impresso.

–   A m 2,75, addossata alla parete E in corrispondenza di un altro livello di scorrimento, fu rinvenuta una grossa macina di arenaria di foggia romboidale.

–   A m 3, si incontrarono le litoclasi b e g, delle quali la prima è praticabile e scende con forte pendenza fino ai livelli inferiori della grotta. Tra l’apertura e il pozzetto diaclasico a vennero rinvenuti tra l’altro un grosso raschiatoio di ftanite verdastra (tav. iii, 16) e uno strano manufatto di foggia abbastanza regolare che sembra essere di pangesso (polvere di selenite disidratata ed impastata) e presentare analogie con quelli rinvenuti nella grotta Serafino Calindri presso Bologna, interpretati come supporti per vasi ed elementi per pavimentazione su graticci vegetali (8).

–   Nel livello inferiore, sotto l’apertura b, a m 3,50 circa di profondità dalla stessa, v’era un riempimento compatto con livelli di carbone: vi furono rinvenuti, oltre a vari frammenti fittili, una punta di freccia foliata con peduncolo ed alette di selce rossa, frammentata (tav. iii, 1) e uno strumento di selce ottenuto con larghi stacchi su una faccia ed un unico colpo sull’altra.

Il Settore iv, corrispondente all’estremità N del vestibolo (tav. i, iv; tav. ii, sez. 5-6), dette la seguente stratigrafia:

–   da m 0,00 a m 0,50 i tre livelli superficiali aventi le stesse caratteristiche di quelli del Sett. i;

–   riempimento dell’antica età del bronzo scavato fino alla profondità di m 2,50-2,60, caratterizzato da: un livello antropico spesso 50 cm; un focolare inclinato da W a E spesso 30-35 cm (da m 0,95 a m 1,30); un secondo focolare meno inclinato spesso circa 35 cm (da m 1,30 a m 1,65-1,70); un livello antropico spesso 90-100 cm nella parte centro-orientale (da m 1,60 a m 2,50) con focolare tra m 1,95 e m 2,25 e focolare a m 1,65 nella parte occidentale con sottostante riempimento antropico spesso 60 cm, cioè fino a m 2,25; alla base ed in posizione centrale, un nuovo focolare, inclinato verso l’ingresso, alla profondità di m 2,50-2,60, scavato fino a m 2,80.

In questo settore, tra m 1 e m 2,80 di profondità, si succedono dunque 4 focolari, evidenziati da livelli di carbone misto a ciottoli di selenite disidratata dal fuoco, con massi di gesso anneriti e concotti in superficie, che talvolta erano crollati in antico, talvolta erano stati sistemati di proposito. È certo che furono sfruttate le rientranze naturali e gli allargamenti rappresentanti antichi livelli di scorrimento delle acque lungo le pareti, forse anche perché più riparati. È però da supporre che focolari coevi non sempre si trovino al medesimo livello, poiché, per la presenza dei grandi massi franati, tra cui principalmente quello gigantesco inclinato da W a E, le genti protostoriche che abitarono la grotta dovettero adeguarsi a quelle che erano le sue caratteristiche morfologiche.

Fra i materiali scavati, che non è possibile descrivere analiticamente, si segnalano tuttavia i seguenti: fusaiola piatta in due pezzi (tra m 0,95 e m 1,10); vaso frammentato ma quasi completo di rozzo impasto con base piana e cordonatura sotto l’orlo, successivamente restaurato (tav. iv, 3) rinvenuto a m 1,15 di profondità nell’angolo NE; tra i massi franati e la parete E, tra m 2,10 e m 2,15: spatola d’osso frammentata, confrontabile con quella rappresentata in tav. xxii da Peroni (9) (tav. iii, 6); oggettino d’osso di foggia fusiforme, spezzato in due parti (tav. iii, 5); oggettino di rame o bronzo appuntito, a sezione rettangolare, piegato quasi ad angolo retto per un colpo ricevuto; a m 2,25 di profondità, grandi frammenti di vasi uno dei quali del tipo riconducibile all’unicum della Tanaccia del quale già s’è detto in precedenza. 

Il Settore v corrisponde al cunicolo a sezione triangolare (tav. i, v; tav. ii, sez. 7-8). Lo scavo, che ha raggiunto la profondità di m 2 ed una lunghezza massima di m 2,50, ne ha messo in evidenza la morfologia di ampia fessura litoclasica diretta S-N ed inclinata W-E, con pareti modellate da livelli di scorrimento delle acque che, approfondendo gradualmente il loro corso, lambivano la parete E. Dalla profondità di m 1 rispetto al piano di calpestio inizia, lungo la parete W, una sporgenza rocciosa levigata che occupa circa metà luce del cunicolo. Quest’ultimo si allarga progressivamente verso il basso fino a raggiungere, alla base dello scavo, m 2,55; era quindi comodamente transitabile per le genti che si insediarono nella grotta.

I livelli antropici iniziano ad una profondità minore rispetto al vestibolo, essendo meno potente la copertura superficiale di sedimenti eolici. Infatti frammenti di vasellame fittile di età medievale e romana sono stati rinvenuti alla profondità di 30 cm. Alla profondità di m 0,85, lungo la parete W, furono rinvenuti frammenti di ceramica grigia lavorati al tornio; si segnalano inoltre due frammenti a vernice nera di tipo campano, verosimilmente del i sec. a.C., dei quali uno reca un motivo decorativo. È da notarsi però che circa alla stessa profondità e nelle immediate vicinanze si trovavano frammenti di ceramica di rozzo impasto chiaramente di età protostorica.

Alla profondità compresa tra m 1 e m 1,50 i frammenti di vasellame fittile riferibili al bronzo antico aumentavano notevolmente di numero, associati ad alcuni rozzi strumenti e scarti di lavorazione di selce e ftanite e ossa di animali. La ceramica era concentrata particolarmente al contatto con la parete, spintavi forse volutamente quando i vasi si rompevano; si segnalano alcune anse a gomito tipo Polada fra cui una con appendice ad ascia (tav. iii, 18) e parte della parete del relativo vaso (probabilmente di tipo tronco‑conico con base piana sagomata a tacco). Alla profondità di m 1,10-1,20 fu rinvenuto un cucchiaio fittile dal manico frammentato (tav. iii, 14) che presenta molte analogie con uno inedito della Tanaccia ed un altro della grotta del Re Tiberio (10) e che Peroni (11) attribuisce alla facies di Polada.

Alla profondità di m 1,50‑1,60 si trovava un focolare, evidenziato da massi di gesso anneriti dal fuoco e da frammenti ceramici costipati sotto gli stessi (si segnala una splendida ansa a gomito tipo Polada unita ad un frammento di parete color rosso lucidato a stecca) assai fitti e frammisti a frustoli di carbone e terra nera concotta. Molti frammenti ceramici, per lo più di rozzo impasto, si rinvennero anche a quasi 2 m di profondità, concentrati particolarmente presso la parete E, ma anche verso il centro del cunicolo. Degna di nota inoltre una sottile lamella ricavata da una zanna di suide con 3 forellini (tav. iii, 4) confrontabile con quella rappresentata alla tav. xxxix, 7 della Guida della preistoria italiana (12), tipica della cultura delle Conelle.

Il Settore iii, posto a N del grande masso inclinato W‑E, corrisponde all’intercapedine tra il masso stesso e la parete W, scavata per una lunghezza complessiva di m 5,50 e fino ad una profondità di m 2,20 circa (tav. i, iii). Lo sbancamento di questo settore fu iniziato nell’estate del 1973 da clandestini che hanno sconvolto i livelli più alti ed asportato o danneggiato i materiali archeologici contenutivi. Proseguendo lo scavo nell’autunno successivo, si vide che il riempimento aveva completamente obliterato una larga diaclasi che, con direzione NE‑SW, si inoltra fin sotto la parete W. I sedimenti risultarono pressoché sterili fino alla profondità di m 1,20-1,30, ove iniziava un focolare dello spessore di circa 40 cm poggiante su una lastra di alabastro, inizialmente suborizzontale ma che, internandosi verso W, assume una notevole inclinazione tanto che, al limite estremo del settore scavato, la si ritrova alla profondità di m 2,20, ove era posto un nuovo focolare, evidenziato da terriccio nerissimo, spesso 8‑9 cm, ma contenente soltanto un frammento di ceramica annerito dal fuoco.

Nel focolare posto tra m 1,20‑1,30 e m 1,60-1,70, si rinvennero invece, oltre a ossa combuste, una grande quantità di frammenti ceramici di rozzo impasto e di grandi dimensioni, diversi dei quali decorati con cordoni plastici orizzontali, sub-verticali e obliqui, impressioni a unghiate e polpastrello sul bordo, associati ad anse ad anello, a gomito, prese a linguetta, fusaiole piatte (tav. iv, 8; tav. iv, 9; tav. iii, 20). Gli oggetti su supporto litico consistono in un percotitoio di selce e in pochi rozzi strumenti, nuclei e scarti di lavorazione di selce locale, ftanite e arenaria (tav. iii, 15); quelli d’osso in un punteruolo su osso con articolazione basale rotto in due parti (tav. iii, 13), simile a quello rappresentato in fig. 20, 11, p. 59 da Peroni (1971) (vedasi anche tav. xxii, D2 in Peroni, 1959) (13), un piccolo dente forato e un segmento di dentalium levigato, un ago crinale incompleto (tav. iii, 10) e una zanna di maiale o cinghiale perforata (tav. iii, 11). Di bronzo è stato rinvenuto un solo oggettino contorto di uso incerto.

Nel focolare, in un livello nerissimo, venne rinvenuta inoltre una mandibola umana isolata, con 7 denti e 12 alveoli, appartenente ad un bambino dell’età di circa 6 anni.

Asportando un frammento della lastra di alabastro, si è visto che sotto v’è un riempimento costituito da una breccia di selenite e alabastro.

La tipologia della ceramica rinvenuta nel Settore iii, contrariamente alle risultanze degli scavi degli altri settori, rimanda al bronzo tardo (cultura subappenninica). Ciò sarebbe in accordo con quanto riscontrato nella vicina Tanaccia di Brisighella (14) ed in altre grotte della Vena del Gesso emiliano-romagnola, in particolare la grotta del Farneto (15) e la grotta Serafino Calindri (16), ove si ha la stessa situazione: una frequentazione nel bronzo antico e nel bronzo recente con probabile continuazione nel bronzo finale ma con uno hiatus cronologico che va dalla fine dell’antica età del bronzo alle ultime fasi del bronzo medio (17). Il problema è che nella grotta dei Banditi non sembra esservi una diretta sovrapposizione delle due fasi, essendo i materiali del bronzo recente concentrati non solo unicamente nel Settore iii, ma ad una profondità tale che coincide coi livelli del bronzo antico. L’unica spiegazione plausibile, allo stato attuale delle cose e salvo nuove acquisizioni in seguito ad ulteriori auspicabili scavi, potrebbe essere che l’insediamento o frequentazione della tarda età del bronzo abbia interessato soltanto la diaclasi che si interna sotto la parete W poiché non utilizzata, per motivi che ci sfuggono, nel bronzo antico e pertanto non obliterata dal riempimento antropico. Un indizio in tal senso potrebbe ricavarsi dal fatto che, in corrispondenza della nicchia che si apre nella parete W, molto vicino all’attuale piano di calpestio della grotta, durante lo scavo è stata incontrata una sacca semivuota. 

Sul problema dello hiatus culturale e cronologico del bronzo medio (xvi-xiv sec. a.C.) nel bolognese ed in Romagna in particolare, notevolmente contradditori sono i dati che si desumono dai lavori che sono stati editi in questi ultimi anni.

In Emilia la distribuzione degli insediamenti che presentano le caratteristiche e gli elementi propri della cultura appenninica, secondo la Bermond (18) denota molto chiaramente il ruolo di territorio di confine assunto da questa regione. La mancanza di stratigrafia impedisce di considerare l’esistenza di vere stazioni appenniniche. Nella zona dei Gessi bolognesi e nelle sue grotte (Farneto, Serafino Calindri e di fianco la chiesa di Gaibola) «sembra assente il materiale da attribuire alla media età del bronzo. I frammenti di ceramica decorata rinvenuti numerosi al Farneto appartengono piuttosto ad un tardo-appenninico che ad un appenninico vero e proprio e quindi sono da considerarsi appartenenti al bronzo recente»  (19). Per la grotta del Farneto F. Lenzi (20) ribadisce la netta e rimarchevole preponderanza di riferimenti al bronzo recente cui si contrappone la sporadicità dei dati sulla più antica fase enea, mentre la media età del bronzo rimane assolutamente priva di sicure attestazioni.

Ancora la Bermond puntualizza che la mancanza di una seriazione stratigrafica impedisce di collocare i pochi elementi dichiaratamente appenninici provenienti da insediamenti bolognesi e romagnoli in un preciso contesto del bronzo medio. Frammenti di vasi con decorazioni di tipo appenninico provengono da Villa Cassarini, Toscanella Imolese, da Solarolo, dalla Bertarina di Vecchiazzano, Castel de’ Britti, Monte Castellaccio; manici a nastro verticale con foro ed apici revoluti ed anse ad anello desinanti ad ascia si hanno inoltre nella grotta del Farneto (21).

Ma in lavori più recenti (22) la stessa autrice afferma che in Romagna il bronzo medio è documentato da insediamenti distribuiti in pianura, sulla fascia pedecollinare e sui punti più elevati dell’Appennino e le loro successioni stratigrafiche suggeriscono l’ipotesi che si riferiscano a genti dedite alla transumanza. Come per i pochi siti riferibili al bronzo antico, anche per il bronzo medio sembra che la Romagna interna sia legata all’Italia continentale, mentre la fascia costiera risenta delle influenze culturali dell’Italia medio-adriatica e peninsulare dove si afferma la civiltà appenninica. A Valle Felici presso Cervia è stato messo in luce un insediamento dove sono attestate due fasi successive, la prima attribuibile alla fase finale del bronzo antico, mentre la più recente appartiene alla fase iniziale del bronzo medio. La ceramica trova confronti nell’area adriatica con la stazione di Ancarano nelle Marche (23). L’insediamento di Mensa Matelica (24), assai esteso ma con stratigrafia unica, malgrado i suoi materiali denotino influenze sia dell’Emilia occidentale nelle anse cornute e nella ceramica buccheroide ornata a solcature, ma anche influenze appenniniche per i motivi a fasce marginate campiti di punti impressi, sembra comunque riferibile al subappenninico, come del resto i siti individuati in località Bastia, a S. Zaccaria, S. Pietro in Campiano, S. Pietro in Vincoli e Ca’ Spreti presso Ravenna.

Una ricca documentazione di ceramiche attribuibili, secondo la Bermond, oltre che al bronzo recente al bronzo medio, è stato restituito da strutture riferibili a fondi di capanne e focolari dell’insediamento d’altura di Villa Persolino, unica località indiziata nel faentino per tale fase dell’età del bronzo. Scarani (25) l’individuò nel grosso livello intermedio (spessore intorno a m 0,80 alla profondità compresa tra m 0,80 e m 1,60 dall’attuale piano di campagna); ma riserve ho già avuto modo di esprimere in un mio precedente lavoro, in seguito ad un riesame di parte di quei materiali, notando come gli elementi su cui si basava l’attribuzione al bronzo medio sembrano riferirsi piuttosto al subappenninico (26).

Si deve pertanto concludere che per la Romagna il quadro relativo al popolamento della media età del bronzo, allo stato attuale delle conoscenze, non è affatto chiaro; in assenza di evidenti successioni stratigrafiche, quasi sempre sconvolte dai lavori agricoli, non è facile distinguere le ceramiche appenniniche da quelle subappenniniche. Nelle grotte della Vena del Gesso emiliano-romagnola sembra però incontestabile lo hiatus culturale e cronologico tra bronzo antico e bronzo tardo.

L’ipotesi, invero affascinante, che fasi di abbandono di ampie porzioni di territorio siano strettamente connesse ad eventi sismici neotettonici, non è attualmente supportata da riscontri oggettivi. Secondo G. B. Vai (comunicazione personale) tale ipotesi potrebbe essere proposta per motivare l’assenza, almeno fino ad ora riscontrata nella nostra regione, del paleolitico medio (musteriano), tanto ben documentato invece nella cerchia alpina; ciò potrebbe essere correlabile al fatto che la nostra area, dalla pianura al crinale appenninico, sia stata abbandonata dopo il paleolitico inferiore probabilmente a causa di sismi legati alla ripresa dell’orogenesi appenninica. Il ricordo di tali eventi catastrofici avrebbe lasciata deserta la nostra regione per un lunghissimo tempo. Tale ipotesi potrebbe valere forse anche per il bronzo medio, limitatamente alla Romagna; nell’Emilia occidentale è ben documentata la civiltà terramaricola, ma la sismicità nella nostra regione diminuisce dal forlivese, al faentino, al bolognese; modenese e parmense sono zone a meno elevata sismicità ed i recenti terremoti che hanno colpito queste aree sono da considerarsi eventi anomali.

Sono in corso ricerche, coordinate da P. Forti, tese ad individuare e correlare eventi sismici con interruzione di accrescimento di stalattiti e stalagmiti in ambiente ipogeo, ma i risultati offrono fino ad oggi troppo spazio ad interpretazioni personali.

 3. Confronti 

Per i reperti della fase iniziale dell’insediamento nella grotta dei Banditi, i confronti più stringenti si hanno con quelli della vicina Tanaccia di Brisighella; per tali livelli – e per quelli di S. Agnese di Borgo Panigale e di Fosso Conicchio presso Viterbo – Peroni (27) ha proposto la denominazione di «aspetto culturale o facies di Asciano», poiché fra le ceramiche di tipo Polada alcune sono decorate con una particolare sintassi geometrica che trova perfetto riscontro con quella delle ceramiche provenienti dai livelli soprastanti quello eneolitico nel Riparo la Romita di Asciano (28). Sebbene ammetta che lo specifico patrimonio culturale della facies di Asciano si riduce a ben poco, come alcune fogge vascolari ed un particolarissimo stile e tecnica delle decorazioni della ceramica incisa a motivi metopali (le cui ascendenze peraltro risalgono chiaramente al bicchiere campaniforme), tanto che si può dire che la sua peculiarità è l’eclettismo che assorbe gli elementi acquisiti e riesce ad amalgamarli, il Peroni formula l’ipotesi che l’economia di Asciano contrasti nettamente con Polada, ove l’agricoltura ha importanza centrale. Anche se non vi sono prove oggettive, ma tutt’al più qualche tenue indizio, almeno una parte delle popolazioni di Asciano sarebbe stata dedita al nomadismo periodico tipico dei gruppi pastorali; e nelle sue comunità ristrette, con insediamenti poco duraturi, sarebbe da riconoscere la componente primaria della civiltà appenninica. Si spiegherebbe così, in Romagna, la loro preferenza per le zone d’alta collina ove avrebbero trovato condizioni ambientali più favorevoli per il loro tipo di economia.

Nella comunicazione preliminare sulla grotta dei Banditi (29), pur tenendo conto delle riserve di vari autori decisamente critici nei confronti di Peroni, subii maggiormente l’influenza della suggestiva ipotesi di quest’ultimo perché aveva il merito di sottolineare la necessità di colmare la lacuna, a quel tempo tanto più ampia, esistente tra le culture eneolitiche e la civiltà appenninica in numerose aree della penisola; inoltre alla Romita – come al Farneto, alla Tanaccia e alla grotta dei Banditi – non è stato trovato alcun elemento specifico che documenti la presenza del bronzo medio, mentre per i materiali provenienti dal livello sovrastante quelli della prima età del bronzo le connessioni sarebbero «sufficienti ad attestare un parallelismo cronologico con la facies subappenninica (30)». Si aggiunga che all’aspetto culturale di Asciano Peroni attribuisce molti reperti di stazioni romagnole, Tanaccia compresa, che anzi ne sarebbe un caposaldo e che, in particolare nel territorio gravitante su Faenza, gli insediamenti attribuibili con sicurezza al bronzo antico sembrano essere ubicati quasi esclusivamente in zone elevate e in modo preponderante lungo la Vena del Gesso romagnola, che si sviluppa trasversalmente alle vallate comprese tra il Santerno e il Lamone e la cui linea di cresta costituì un’importante via di comunicazione per le genti eneolitiche e dell’età del bronzo (31); le stazioni note sono poi quasi tutte in grotta: oltre alla Tanaccia, basti citare la grotta del Re Tiberio, cui si aggiunge ora la grotta dei Banditi, in posizione intermedia.

Oggi maggior credito mi sembra sia da attribuire ai molti Autori dai quali viene contestata l’attribuzione alla cultura di Asciano della facies della Tanaccia sia per l’alta percentuale di forme dell’orizzonte di Polada (32), sia perché, non essendo stata la facies della grotta romagnola ancora segnalata nell’Emilia occidentale, dovrebbe riguardarsi più sotto il profilo locale che sotto quello dell’evoluzione cronologica (33).

Anche la Bermond Montanari (34) si esprime criticamente nei confronti di Peroni, attribuendo i reperti della fase più antica della Tanaccia, pur in mancanza di dati stratigrafici, al bronzo antico con ascendenze del vaso campaniforme ma con elaborazione nuova dei motivi decorativi (triangoletti incisi, linee punteggiate e tratteggiate, decorazione metopale ecc.). Vi sono poi frammenti ceramici che risentono dell’influenza della cultura delle Conelle per la decorazione con punzonatura profonda a crudo di motivi a fasce di punti non marginate (35). In particolare i boccaletti con forma a sacco, labbro leggermente sporgente e ansa a gomito impostata sull’orlo o poco al di sotto di esso ed i vasi tronco-conici con base piana sagomata a tacco (fig. 1), anch’essi con ansa a gomito, farebbero ascrivere i livelli del bronzo antico della Tanaccia alla cultura di Polada nelle sue fasi 1 e 2A, così come l’ascia a margini diritti tipo Remedello e lo spillone con testa a disco. La Tanaccia di Brisighella sembra segnalare il limite più meridionale dell’area culturale di Polada, ma gli stessi elementi di forme tardo-campaniformi associate con ceramiche tipiche di Polada che compaiono anche a Borgo Panigale sarebbero espressioni di uno stile regionale della Romagna, che mostra chiaramente anche influssi adriatici, oltre che alla Tanaccia, anche nell’insediamento di valle Felici presso Cervia.  

Fig. 1 - Tre boccaletti con forma a sacco, labbro leggermente sporgente ed ansa a gomito impostata sull'orlo, tipici della cultura di Polada, rinvenuti dallo speleologo triestino G. Mornig nel corso dei primi scavi archeologici svolti alla Tanaccia nel 1935. IN primo piano un vasetto miniaturizzato, una piccola coppa riferibile forse alla prima età del ferro e tre fusaiole a disco schiacciate.

Quanto ai reperti fittili della grotta dei Banditi, malgrado le loro peculiarità, sembra doversi pertanto concludere che anch’essi rientrino nel quadro della composita cultura della Tanaccia così come delineata dalla Bermond; tali peculiarità sarebbero dovute al tipo di utilizzazione che ebbe la cavità naturale, e cioè di abitazione, il che comporta l’uso prevalente di oggetto d’uso domestico.

Una dettagliata analisi dei reperti della Tanaccia è stata compiuta da G. Farolfi (36) la quale, seguendo sostanzialmente la Bermond, esprime l’opinione che le manifestazioni di gusto locale siano mediate dalla cultura di Polada, ma riconosce tuttavia che, alla luce delle conoscenze attuali, è piuttosto difficile inquadrare organicamente questa fase nell’ambito delle coeve manifestazioni culturali della regione, essendo pochi e di esigua consistenza i ritrovamenti riferibili alla prima età del bronzo. Gli scavi hanno restituito infatti una notevole quantità di materiale che copre cronologicamente un lungo arco di tempo, dall’eneolitico all’età romana.

Tra la produzione vascolare si evidenzia comunque il vasellame riconducibile cronologicamente alle ultime fasi dell’eneolitico e al bronzo iniziale (37) ed anche l’industria litica, di tradizione «remedelliana», e quella in corno, osso e metallo, sono riferibili alle stesse fasi. Detto materiale conferma contatti e influenze principalmente con i livelli inferiori dei depositi antropici della grotta del Farneto (38) e dell’insediamento di S. Agnese di Borgo Panigale nel Bolognese (39), l’orizzonte scoperto nel cesenate a Diegaro (40) e l’abitato di valle Felici presso Cervia (41); le prime stazioni particolarmente hanno, tra l’altro, la caratteristica di essere situate in zone pedemontane e quindi, anche allora, facilmente accessibili agli uomini e agli influssi culturali.

Secondo l’autrice l’elevato livello culturale che si riscontra in questa fase alla Tanaccia, indice di una società discretamente evoluta, fu favorito certo dalle condizioni climatiche e da un’economia la quale, oltre che sull’agricoltura e sull’allevamento, si basava ormai su attività commerciali, come mostra la presenza, sebbene scarsa, di oggetti metallici. Fa notare inoltre come qui giungano, in misura maggiore che nelle altre stazioni coeve sopracitate, influenze dall’area lombarda, toscana e medio-adriatica, tanto che la Tanaccia può considerarsi un punto di estremo interesse per questo incontro di culture, essendo posta sulla linea di separazione che durante il bronzo antico venne a definire nella penisola italiana due aree diverse.

Dopo lo hiatus cronologico che va dalla fine del bronzo antico alle ultime fasi del bronzo medio, i cui motivi, come già evidenziato, non trovano una plausibile motivazione, il materiale della Tanaccia e quello del Settore iii della grotta dei Banditi documentano una seconda fase di utilizzazione, sembra più di frequentazione che di vero e proprio insediamento, durante il bronzo recente: si riconoscono infatti fittili riconducibili, per impasto e tipologia, alla cultura subappenninica. Un’analoga situazione sembra riscontrarsi anche in altre grotte protostoriche che si aprono nella vena del Gesso romagnola (ad es. nella grotta del Re Tiberio) ed è testimoniata pure in alcune cavità naturali del bolognese, in particolare in quella del Farneto e nella Serafino Calindri. Le forme appartenenti a questa fase sembrano denotare uno stato di impoverimento e di decadenza e fanno pensare ad una società piuttosto chiusa ed arretrata, con economia poggiante quasi esclusivamente sulle attività pastorali e sull’allevamento.

Per la Tanaccia in particolare, secondo la Farolfi (42) è infatti difficile poter dire cosa spingesse le genti di quei tempi a frequentarla se non condizioni estreme di povertà, data la situazione ambientale e la mancanza di testimonianze di commerci attivi e proficui. 

4. Conclusioni

Malgrado le molte analogie, fra la Tanaccia e la grotta dei Banditi vi sono pure notevoli e significative differenze: per la prima, ritenendosi improbabile una destinazione sacrale, poiché non vi sono elementi peculiari che documentino l’eventuale presenza di un culto della acque o segnalino tracce di offerte votive a qualche divinità (contrariamente a quanto è indicato in modo inequivocabile nella grotta del Re Tiberio) (43), è stata fatta l’ipotesi di una sua utilizzazione, oltre che come abitazione, come luogo di sepoltura. Furono infatti rinvenute ossa umane sparse un po’ dovunque: lo scheletro di un bambino senza corredo in un terreno sterile sotto un pesantissimo blocco di roccia; poche ossa degli arti superiori di un adulto in parziale connessione anatomica in vicinanza delle quali fu raccolta una cuspide di freccia e poco più distante una mandibola; un gruppetto di ossa craniche riferibili ad un adolescente, in prossimità delle quali erano due piccoli crani interi di canide ed un buon numero di vasi, interi e frammentati, ornati e inornati. L’ipotesi di una fase di utilizzazione funeraria della Tanaccia, anche se il rituale preciso sfugge, viene avvalorato dal fatto che la maggior parte delle forme fittili raccolte integre era stata capovolta (44).

Probabile corredo di un’altra sepoltura, sconvolta durante scavi clandestini, sono anche un martello a ferro da stiro in pietra verde, un corno di cervide levigato e forato e diversi denti di canide anch’essi forati (questi ultimi irrimediabilmente dispersi) (45). Risulta purtroppo che anche il martello e il corno, custoditi a Pieve in Ottavo e successivamente a Brisighella da mons. Benedetto Lega, dopo la sua morte non sono stati ritrovati malgrado le ricerche svolte presso gli eredi dall’amministrazione comunale di Brisighella.

Molti altri elementi possono essere visti in stretta attinenza con i corredi funebri, convalidando l’ipotesi che la Tanaccia dovette rappresentare un luogo scelto per la deposizione dei propri morti da parte delle genti che sporadicamente erano stanziate nelle zone limitrofe e dei cui abitati non sono ancora state trovate tracce consistenti, ma solo indizi limitati e sparsi a seguito di distruzioni operate da lavori agricoli e da scavi clandestini effettuati nello spiazzo antistante l’ampia caverna. La cattiva esposizione, a nord, della grotta, malgrado la vastità dell’ambiente iniziale, dovette invece limitarne l’uso come abitazione.

Nella grotta dei Banditi si ha invece un vero e proprio insediamento per la sua felice ubicazione ed esposizione, cosa del resto dimostrata dall’ininterrotta serie di focolari contenenti grandissime quantità di resti di pasti; inoltre il vasellame è costituito quasi esclusivamente di ceramica di rozzo impasto, d’uso corrente, annerita dal fuoco e spezzatasi per l’uso. Le numerose anse a gomito di tipo Polada sono pertinenti a grandi vasi tronco-conici con base piana sagomata a tacco e non ai classici poculetti trovati in numero rilevante alla Tanaccia. Nella grotta dei Banditi si sono invece rinvenuti pochissimi frammenti di tali poculetti e mancano inoltre del tutto ceramiche decorate con motivi di ascendenza del vaso campaniforme e di influenza della cultura delle Conelle; il che tra l’altro si pone come notevole divergenza anche rispetto alla facies di Asciano. Molto comuni e spesso di raffinata esecuzione sono invece i pendagli da zanne di cinghiale o maiale, ornamenti questi caratteristici della cultura delle Conelle, ma frequenti anche alla Tanaccia, come pure denti e conchiglie fossili forate e strumenti d’osso.

La mandibola umana rinvenuta isolata nel focolare del Sett. iii della grotta dei Banditi non costituisce un fatto nuovo per quanto concerne i rituali funebri testimoniati nelle grotte emiliano-romagnole; va però rilevata la precisa concordanza con la grotta S. Calindri, ove l’unico resto osteologico umano è rappresentato appunto da una mandibola appartenente a un individuo di circa 6 anni, rinvenuta nella parte inferiore del primo livello (46). Tracce di sepolture sono state trovate anche in altre grotte della Vena del Gesso: grotta del Farneto (47) e vicino Sottoroccia (48), Tanaccia (49), grotta del Re Tiberio (50), grotta di fianco alla chiesa di Gaibola (51); ma, salvo poche eccezioni, le ossa umane si rinvennero smembrate, normalmente disseminate negli strati archeologici ed associate in evidente promiscuità ai resti delle industrie e alle ossa di animali. Pur rimanendo troppo scarse, allo stato attuale delle cose, le notizie e i dati di scavo per ricostruire anche ipoteticamente un rituale funerario, si deve comunque rilevare che per ora il rito dell’inumazione parziale in Emilia-Romagna, fin dall’eneolitico, risulta esclusivo delle cavità naturali e presenta come carattere comune l’accentuato frazionamento dei resti scheletrici, che nella Tana della Mussina erano anche semicombusti (53). Pertanto la conservazione dei crani e di loro parti staccate, sia per l’uomo, sia per gli animali, appare intenzionale e legata a manifestazioni religioso-funerarie.

Per la mandibola di bambino della grotta dei Banditi si potrebbe pensare ad un «sacrificio di fondazione», diffuso presso vari popoli nell’antichità, consistente in un sacrificio umano e nel seppellimento totale o parziale della vittima entro il perimetro di un edificio o per propiziarne la costruzione, testimoniato nell’ambito della cultura neolitica di Ripoli in una capanna di Lanciano in Abruzzo (54). Il confronto più stringente sembra però esservi con la grotta dei Piccioni a Bolognano, anch’essa in Abruzzo, nel cui deposito esistono i resti di una lunga sequenza culturale: la cavità durante il neolitico venne frequentata per scopi culturali dalle genti della ceramica impressa e nei livelli ad esse pertinenti sono venuti in luce i resti scheletrici di un bambino in posizione rannicchiata ma senza sepoltura e corredo funebre, cosa che potrebbe documentare l’uso già a quei tempi (circa 6.000 anni fa) di sacrifici umani in funzione del possesso della grotta. In epoca più recente, cioè intorno al 2.700 a.C., nell’ambito della cultura di Ripoli, la stessa cavità è stata sede di pratiche consistenti tra l’altro nello scavare fosse per compiere riti connessi alla fertilità della terra, tra i quali quello singolare consistente nel sacrificio di bambini: infatti, in prossimità del fondo semicircolare della grotta, sono stati trovati i resti di  undici circoli delimitati da ciottoli, uno dei quali contenente i resti di un neonato e altri due, assieme ad un ricco corredo di ceramiche, i resti di due bambini fra gli otto e i dieci anni. Rito di sacrificio che trova una sorprendente analogia con uno in uso nell’antico Messico, dove all’atto della semina veniva sacrificato un neonato, al raccolto bambini dagli otto ai dieci anni (55).

 Il crollo del vestibolo della grotta dei Banditi (e della parte iniziale del suo ramo inferiore, posto a q. 469,50) sembra essere coevo a quelli verificatisi in altre grotte preistoriche della Vena del Gesso emiliano­romagnola, fra cui la Tanaccia (56), la Grotta del Farneto ed il vicino Sottoroccia (57), la grotta S. Calindri (58) e il buco dei Buoi (59) e sembra potersi mettere in relazione con il peggioramento climatico ed i grandi dissesti idrogeologici delle ultime fasi della tarda età del bronzo verificatisi nel xiii secolo a.C. I grandi massi all’ingresso della grotta dei Banditi sono caduti dalla volta e si può individuare per tutti la loro superficie di distacco, che in alcuni casi si trova poche decine di centimetri al di sopra della loro attuale giacitura. Questa situazione, come già anticipato in nota 5, fornisce un indizio per la datazione delle «vaschette» rupestri esistenti nella cavità; infatti uno di detti incavi si trova su una superficie verticale di un masso franato, separato da quello adiacente da un’intercapedine talmente esigua che non sarebbe possibile eseguirvi alcuno scavo nelle condizioni attuali. Il grande crollo avvenuto nella grotta dei Banditi comportò probabilmente l’immediato abbandono della cavità da parte delle genti subappenniniche, come alla vicina Tanaccia, e nei secoli successivi essa fu frequentata soltanto in modo sporadico, come attestano i reperti dell’età del ferro, romani, medievali e recenti.

Come ripetutamente messo in rilievo da Veggiani (60), nel Subboreale (2.500-800 a.C.) inizia infatti il declino del clima con regresso termico accompagnato da alternanze di fasi asciutte e umide. Le ricerche per ora più attendibili su tali variazioni climatiche sono quelle fatte sul ghiacciaio di Fernau in Tirolo: qui infatti sono state riconosciute, per i periodi pre-protostorici, due fasi di avanzata delle fronti glaciali e quindi due periodi di deterioramento climatico con conseguenti dissesti idrogeologici, il primo tra il 1.400 e il 1.300 a.C. e il secondo tra il 900 e il 300 a.C. (61). Lo studio stratigrafico dei numerosi siti pre-protostorici della pianura padana ha permesso di verificare la validità delle ricostruzioni paleoambientali e paleoclimatiche effettuate sulla base delle oscillazioni di tali fronti glaciali e sulla lettura dei diagrammi pollinici (62). Gli insediamenti della tarda età del bronzo sembrano andare in crisi improvvisamente intorno al 1.200 a.C.: nell’Emilia centro-occidentale cessa la cultura terramaricola, mentre in Romagna si interrompe quella subappenninica (63), in coincidenza col peggioramento climatico connesso all’oscillazione di «Löbben», che potrebbe avere avuto la sua fase più catastrofica proprio intorno al 1.200 a.C. A seguito dell’innalzamento dei letti fluviali indotto da tale deterioramento climatico si sono verificate alluvioni, allagamenti e impaludamenti, riconosciuti con lo studio stratigrafico degli insediamenti tardo­appenninici dei Cappuccinini di Forlì (64) e di S. Giuliano di Toscanella imolese (65).

Giova però ricordare che sulle cause della crisi verificatasi nel xiii secolo non vi è unanimità di vedute fra gli studiosi; ad es. De Marinis (66) recentemente ha sostenuto che la brusca frattura, storica e culturale, che si verifica intorno al 1.200 a.C., non sarebbe dovuta a cause di origine naturale, tesi che a suo avviso, pur avendo ancora molti fautori, appare sempre meno verosimile. Non si avrebbero infatti dati diretti sul clima della pianura padana nella media e tarda età del bronzo, derivanti cioè dall’analisi di ecofatti, indicatori climatici, rinvenuti nel corso degli scavi di abitati di quell’epoca. Tutte le affermazioni correnti sono estrapolazioni da altre regioni europee, in particolare proprio per quanto riguarda le fasi di avanzata e di ritiro dei ghiacciai alpini. Le frequenti affermazioni su un deterioramento climatico verso la fine della cultura palafitticolo­terramaricola nascono da una lettura non meditata delle fonti. Non si tiene conto del fatto che datazioni intorno al 1390 o 1350 o 1300 a.C. per fasi di avanzamento dei ghiacciai alpini non sono riferibili alla media o tarda età del bronzo. Infatti tali date sono datazioni radiocarboniche convenzionali, con semiperiodo Libby e un solo sigma di errore; dal punto di vista archeologico corrispondono ad una fase avanzata della cultura di Polada. Il ghiacciaio di Fernau raggiunge la sua massima estensione postglaciale verso il xvii secolo a.C. (anni reali; date C 14 ca. 1300-1400 a.C.); abbiamo conferma di una fase di clima freddo in quell’epoca dall’abbassamento di due metri del livello del mare durante il MH iii-a nell’isola di Keos (67).

Secondo De Marinis è molto più probabile invece che le cause della drastica frattura siano state di ordine storico, ad esempio movimenti migratori di nuove popolazioni, il cui arrivo in Italia ha generato fattori di notevole instabilità e radicalmente mutato la distribuzione geografica del popolamento. Infatti, mentre la media val padana si spopola, nuove zone di grande densità demografica si costituiscono ad occidente e ad oriente (la cultura di Golasecca nella Lombardia occidentale, quella di Este nel Veneto). Nello stesso tempo l’unità culturale della penisola appenninica si frantuma e si delineano nuovi gruppi culturali. È noto che il xii secolo a.C. per i Balcani, l’Egeo e il vicino oriente fu un periodo di grande instabilità, invasioni e migrazioni di popoli ed è probabile che questa situazione coinvolgesse anche l’Italia.

L’età del bronzo finale (protovillanoviano) che ha avuto una durata di circa due secoli (xi e x sec. a.C.) fu per l’Italia di enorme importanza. Se all’inizio vi fu un periodo di crisi, confuso e oscuro, ben presto avvennero profonde trasformazioni, si svilupparono nuovi insediamenti stabili e fiorenti e si posero le basi di un generale progresso; non soltanto cambiò la geografia del popolamento e diminuì la densità demografica della pianura padana, ma la stessa cultura materiale indica una nuova direzione di sviluppo. Pare soprattutto che si realizzasse un diverso modello insediativo, che probabilmente rispecchiava nuove strutture economiche e sociali e un diverso orientamento culturale. Tutti gli abitati conosciuti di questo periodo nel Veneto e in Lombardia sono infatti ubicati su importanti vie fluviali: Frattesina, Montagnana, Mariconda di Melara, Sermide, Sacco di Goito e Casalnuovo.

Uno spopolamento pressoché completo della bassa pianura lombarda si avrà solo nel ix-viii sec. a.C. e in questo caso vale forse la spiegazione di un fattore di ordine climatico, il deterioramento che ha contrassegnato il passaggio dal periodo subboreale a quello subatlantico.

Ma secondo Veggiani (68) fu il nuovo ottimo climatico che si svolse tra il 1100 e il 900 a.C. a consentire una rioccupazione del suolo attestata un po’ dovunque dalla diffusione degli insediamenti del protovillanoviano; seguì però un’importante recrudescenza del clima tra il 900 e il 300 a.C. che provocò ancora una volta notevoli dissesti idrogeologici, le cui prove emergono chiaramente tra l’altro anche dall’esame stratigrafico dei siti del bronzo finale: è il caso della necropoli di Frattesina, situata lungo il corso del Po di Adria, che testimonia l’esistenza, nella prima metà del ix secolo a.C., di una fase alluvionale a seguito della quale l’area fu poi abbandonata (69), con conseguente hiatus cronologico che si protrasse fino all’arrivo di nuove genti, etrusche e umbre, alla fine del vii e soprattutto tra il vi e il v secolo a.C.

 Aggiornamento 

Dall’epoca della stesura del presente lavoro (1988), che per quanto riguarda la grotta dei Banditi aveva tra l’altro carattere preliminare, sono passati quattordici anni e nel frattempo è stato ripreso in esame il materiale archeologico di tale cavità, gran parte del quale per una serie negativa di circostanze non era stato possibile studiare in modo adeguato. La situazione fu sbloccata in occasione del convegno «Acque, Grotte e Dei» e relativa mostra svoltisi a Imola nel gennaio 1997, essendo stata autorizzata dalla Soprintendenza archeologica dell’Emilia-Romagna un’esposizione in contemporanea, nella rocca trecentesca di Riolo Terme, di significativi reperti, provenienti dalle più famose grotte della Vena del Gesso romagnola frequentate dall’uomo in età pre-protostorica, fra i quali di preminente interesse erano quelli della grotta dei Banditi.

Per presentare adeguatamente questi ultimi fu necessaria la revisione dell’ingente quantità dei materiali rinvenuti, cosa che con l’aiuto dello scrivente fu fatta dalle dott.sse Laura Mazzini e Tullia Moretto, incaricate dalla Soprintendenza; in concomitanza furono effettuati i restauri ad opera di Ardea Fabbri.

Le note che seguono costituiscono una breve sintesi di quanto emerso da tale revisione.

   Viene confermato che dagli strati più profondi – e fin quasi ai livelli superficiali – provengono frammenti fittili dell’età del Bronzo antico (xxiii-xviii sec. a.C.) che, ricomposti, hanno restituito: in ceramica grezza, ollette per cuocere i cibi e grandi vasi adatti a contenere liquidi e prodotti agricoli; in ceramica fine e semifine, vasi da mensa quali brocche e boccali usati per versare liquidi e scodelle e tazze per mangiare e bere. Particolari sono poi alcuni colini in terracotta usati per filtrare, oltre al cucchiaio descritto e rappresentato in tav. iii, 14 nel testo.

   Anche i frammenti ceramici con cordoni plastici pertinenti a vasi di grandi dimensioni di tav. iv, 8 e 9 rinvenuti nel settore mediano della grotta, nella fenditura diaclasica che si apre nella parete nord, che per la loro tipologia mi avevano indotto a ritenere fossero riferibili ad un livello del Bronzo recente (facies subappenninica), livello che aveva suscitato non solo in me notevoli perplessità poiché anomalo trovandosi alla stessa profondità della stratificazione del Bronzo antico, appartengono molto più probabilmente ad un repertorio tradizionale che è persistito per un lungo tempo (Marco Pacciarelli, comunicazione personale). In tal caso il crollo verificatosi nella grotta dei Banditi andrebbe forse retrodatato alla fine del Bronzo antico, cioè intorno al 1700 a.C., a causa di una crisi climatica precedente quelle che determinarono i crolli nelle cavità naturali dei Gessi emiliano-romagnoli intorno al 1200 a.C. («subappenninico») e al 900 a.C.

   Mescolati ai resti osteologici faunistici disseminati in pressoché tutti i livelli del deposito antropico – che da una prima indagine risultano ascrivibili in misura preponderante a suini ed ovicaprini – sono state riconosciute ossa umane in buona parte bruciate riconducibili ad almeno quattro individui, dei quali due adulti, un bambino di circa sei anni ed un neonato: si tratta più precisamente di una mandibola e di un omero di bambino (non combusti), di frammenti di calotte craniche e di parte degli arti superiori di adulti (combusti) e del frammento di un’ulna di neonato. Di tali reperti nel mio lavoro avevo riferito unicamente della mandibola poiché gli altri resti, pur registrati nel diario di scavo, erano stati da me attribuiti solo dubitativamente ad esseri umani e pertanto necessitanti di un riscontro da parte di uno specialista. La presenza di ossa umane, e particolarmente di quelle combuste, sembra essere a mio avviso un ulteriore dato a favore dell’ipotesi, già formulata a proposito della mandibola, che nella grotta si siano svolti sacrifici umani.

   Le testimonianze archeologiche sembrano interrompersi per più di mille anni, mancando qualsiasi reperto che attesti un’utilizzazione della grotticella nella fasi del Bronzo medio, recente e finale e della prima età del Ferro, per riemergere solo in corrispondenza degli strati più superficiali nella parte più interna dell’antro, con scarsi ritrovamenti databili alla seconda età del Ferro (vi-iv sec. a.C.) e riferibili agli umbri e forse anche ai celti, che nello stesso periodo frequentavano la non lontana grotta del re Tiberio. A conferma della utilizzazione per scopi rituali delle cavità naturali della Vena del Gesso da parte di quelle genti, in questi ultimi anni sono stati rinvenuti in alcune grotte mai prima esplorate vasetti fittili che possono essere definiti veri e propri ‘fossili guida’, fra i quali si segnalano una scodella-coperchio dall’abisso Ricciardi a monte Mauro ed un’olletta-bicchiere a corpo ovoide con piccole prese a sporgenza sotto l’orlo rinvenute sul fondo di un inghiottitoio sotto la rocca di monte Mauro (70).

   Anche per l’età romana i reperti sono poco numerosi, ma comunque tali da offrire un confronto ancora una volta con la più documentata grotta del re Tiberio: si ipotizza che i romani salissero alla grotta dei Banditi dal ii-i sec. a.C. al iii-iv sec. d.C. forse per la presenza di una sorgente medicamentosa oggi prosciugata o migrata a livelli inferiori inaccessibili.

   Per altri mille anni la grotta è stata nuovamente abbandonata e solo tra il xiv ed il xv sec. d.C. qualche pastore vi portò un boccale di maiolica di cui rimangono i frammenti. 

Note

(1) G. B. De Gasperi, Appunti sui fenomeni carsici nei gessi del Monte Mauro, «Riv. Geog. It.», xix/3‑4 (1912), pp. 319-326.

(2) Le coordinate geografiche e i dati catastali riferiti alla Carta tecnica regionale 1:5.000 sono: Elemento 239134-Zattaglia, Lat. 44°14’16’’29, Long. 11°41’37’’06, q. 476, svil. m 77,2. disliv. –m 2.

(3) L. Bentini, Le ultime scoperte paletnologiche nella Grotta del Re Tiberio (36E/RA),  «Atti vii Conv. Speleol. dell’Emilia-Romagna e del simposio di studi sulla Grotta del Farneto», Mem. x «Rass. Spel. It.», Como 1972, pp. 190-205.

(4) Id., Note preliminari sulle «vaschette» rupestri nella Vena del Gesso romagnola, in Archeologia tra Senio e Santerno. Atti del Convegno, Solarolo 1983 (ed. 1985), pp. 27-51.

(5) Recenti osservazioni hanno portato a formulare l’ipotesi che il concrezionamento delle «vaschette» nelle grotte della Vena del Gesso romagnola avvenga molto rapidamente e pertanto ciò non costituirebbe un argomento determinante per stabilirne l’antichità. Nel caso della grotta dei Banditi però un indizio a favore della loro età remota sembra essere il crollo dei grandi massi staccatisi dalla volta presso l’ingresso, con una nicchia esistente in una esigua intercapedine tra due di essi, scavata dunque precedentemente al crollo stesso, come più dettagliatamente si dirà in prosieguo. In un mio recente lavoro sulle «vaschette» (Bentini, Note preliminari sulle «vaschette» rupestri, cit.) ho ripreso in esame questi caratteristici incavi giungendo alla conclusione che quasi tutti sarebbero di età medievale o addirittura recente. Per quelli della grotta del Re Tiberio in particolare (Id. Le ultime scoperte paletnologiche, cit.) avevo in precedenza seguito la tesi di Scarabelli (Notizie sulla caverna del Re Tiberio. Lettura del Senatore G. Scarabelli al chiarissimo signor professore Antonio Stoppani, «Atti Soc. It. Sc. Nat.», 16, v, 1872, pp. 20, estr.) che le grandi nicchie e sedili presso l’ingresso fossero di età protostorica; ma la tecnica della loro esecuzione mi fa ora propendere maggiormente per una datazione più tarda, riferibile al medioevo.

(6) Gruppo speleologico «Città Di Faenza», Gruppo speleologico «Vampiro» Faenza, Le cavità naturali della Vena del Gesso tra i fiumi Lamone e Senio, Faenza 1964.

(7) G. A. Mansuelli – R. Scarani, L’Emilia prima dei Romani, Milano 1961.

(8) G. Bardella – C. Busi, Testimonianze della civiltà subappenninica nella Grotta Serafino Calindri, Croara, Bologna, «Speleologia Emiliana», s. ii, iv/7 (1972), pp. 25-26.

(9) R. Peroni, Per una definizione dell’aspetto culturale «subappenninico» come fase cronologica a se stante, «Atti Acc. Naz. Lincei», s. viii, ix/1 (1959).

(10) Bentini, Le ultime scoperte paletnologiche, cit., fig. 45.

(11) R. Peroni, L’età del bronzo nella penisola italiana, i, L’antica età del bronzo, Firenze 1971; fig. 19, 26; p. 54.

(12) A. M. Radmilli et al., Guida della preistoria italiana, Firenze 1975.

(13) Peroni, L’età del bronzo nella penisola italiana, cit.; Id., Per una definizione dell’aspetto culturale «subappenninico», cit.

(14) Scarani, Gli scavi nella Tanaccia di Brisighella, in Preistoria dell’Emilia e Romagna, i, Bologna 1962, pp. 253-285.

(15) G. Bermond Montanari – A. M. Radmilli, Recenti scavi nella Grotta del Farneto, «Bull. Paletn. It.», ix (n.s.), lxiv (1954‑55), pp. 157-159.

(16) Bardella – Busi, Testimonianze della civiltà subappenninica nella Grotta Serafino Calindri, cit.

(17) Bermond Montanari, L’eneolitico e il bronzo nell’Emilia e Romagna, in Atti xix Riun. Scient. Ist. It. Preist. Protost., Firenze 1976, pp. 137-161; Ead., L’età dei Metalli, in Materiali e documenti per un Museo della preistoria. S. Lazzaro di Savena e il suo territorio, a cura di F. Lenzi, G. Nenzioni, C. Peretto, Bologna 1985, pp. 245-249.

(18) Ead., La preistoria fino all’età del bronzo, in Storia della Emilia Romagna, 1,  Bologna 1976, p. 58.

(19) Ead., Aspetti archeologici dei Gessi bolognesi, in Salviamo i Gessi. Atti del Convegno, Bologna 1975 (ed. 1978), p. 20.

(20) F. Lenzi, Il rerritorio di S. Lazzaro di Savena durante l’età del Bronzo, in Materiali e documenti per un Museo della preistoria, cit., pp. 251-253.

(21) Bermond Montanari, ibid., p. 246.

(22) Ead., Il popolameuro pre e protostorico nel territorio cervese, in  Cervia. Natura e Storia, Rep. S. Marino, 1988, pp. 37-44; Ead., I primi insediamenti umani, in Storia illustrata di Ravenna, Milano 1989, pp. 86‑87.

(23) Peroni, L’età del bronzo nella penisola italiana, cit.

(24) Mansuelli – Scarani, Ravenna (Fraz. Mensa), Abitato preistorico. Casa Romana, «Not. Scavi», 1959, pp. 31-50.

(25) Scarani, Faenza (Ravenna). Nuove scoperte preistoriche nel territorio, ibid., 1960, pp. 316‑330.

(26) L. Bentini, I centri economici ed abitativi nel faentino in età pre e protostorica, in Parliamo della nostra città (Atti del convegno, Faenza 1976), Castelbolognese 1977, pp. 13-64.

(27) Peroni, L’età del bronzo nella penisola italiana, cit.

(28) Id., La Romita di Asciano (Pisa) riparo sotto roccia utilizzato dall’età neolitica alla barbarica, «Bull. Paletn. It.», 71-72 (1962-63), pp. 251-442, particolarm. pp. 326 ss., livelli 7 e 8.

(29) L. Bentini, Note preliminari sulla grotta preistorica dei Banditi (384 E/RA) nei Gessi di Monte Mauro (Brisighella, Ravenna),  «preprints xiii Congr. Naz. Speleologia»,  Perugia 1978.

(30) Peroni, La Romita di Ascianno, cit., p. 348.

(31) Bentini, I centri economici ed abitativi nel faentino, cit.

(32) A. Aspes – L. Fasani, Aspetti e problemi dell’antica età del bronzo in Italia settentrionale, «Preist. Alpina», 10 (1972), ed. 1975, pp. 79‑84.

(33) L. H. Barfield, Il periodo eneolitico nella provincia di Reggio Emilia, in Preistoria e Protostoria nel reggiano. Ricerche e scavi 1940-1975, Reggio Emilia 1975, pp. 27‑30.

(34) Bermond Montanari, L’eneolitico e il bronzo nell’Emilia e Romagna, cit.; Ead., La preistoria fino all’età del bronzo, cit.; Ead., L’età dei metalli, cit.

(35) Cfr. tav. 69 di Preistoria dell’Emilia e Romagna, i, cit.

(36) G. Farolfi, Tanaccia di Brisighella. Problemi cronologici e culturali, «Origini», 10 (1976), pp. 175/243.

(37) La ceramica è attribuibile infatti per la maggior parte alla facies di Polada, ma con influssi della cultura della Lagozza, di rielaborazioni locali della cultura del vaso campaniforme e di fogge dello stile di Conelle. Sulla presenza di fogge riferibili a queste ultime culture eneolitiche, ed in particolare di quelle di Conelle con la tipica decorazione a punteggio incrostato di pasta bianca, G. Barker (Ambiente e società nella preistoria dell’Italia centrale, «Studi Nis Archeologia», 2, Urbino 1984, pp. 84, 94) fa tuttavia rilevare che i frammenti della Tanaccia sembrano provenire da livelli della prima metà del secondo millennio a.C., e cioè dell’antica età del bronzo; ciò è comunque in accordo con quanto documentato in altri siti, datati, dell’Italia centro‑settentrionale ove è presente ceramica stile Conelle, che indicano come tali complessi «eneolitici» in realtà iniziano assai tardi nel terzo millennio per poi proseguire nella prima parte del millennio successivo e che furono quindi parzialmente contemporanei a siti che, in altre zone dell’Italia centrale, sono formalmente considerati dell’età del bronzo.

(38) Bermond – Radmilli, Recenti scavi nella grotta del Farneto, cit.

(39) M. Catarsi Dall’Aglio, La stazione preistorica di Borgo Panigale (Bologna). Scavi 1950-1959, in Atti xix Riun. Scient. Ist. It. Preist. Protost., Firenze 1976, pp. 243-266.

(40) A. Veggiani, Insediamenti dell’età del Bronzo lungo la via Emilia tra Forlimpopoli e Cesena, «Studi Romagnoli», 25 (1974), pp. 3-18.

(41) Bermond, L’eneolitico e il bronzo nell’Emilia e Romagna, cit.

(42) Farolfi, Tanaccia di Brisighella, cit.

(43) La grotta del Re Tiberio, unitamente a quelle di Latronico, di Pertosa, di Frasassi e di numerose altre in Italia, fa parte di un ben determinato gruppo di cavità naturali di carattere sacro nelle quali sono state rinvenute importanti stipi votive. U. Rellini, La caverna di Latronico e il culto delle acque salutari nell’età del bronzo, «Mon. Ant. Lincei», 24, 1916, coll. 514-515, 548, 553-554, 610, a proposito della grotta romagnola mette in particolare risalto l’esistenza di sorgenti d’acqua, una delle quali situata nell’interno della «Sala Gotica» ed interpreta come stipe votiva i numerosissimi vasetti fittili miniaturizzati (oltre 700) attribuibili all’età del bronzo e del ferro, rinvenuti ammassati in una zona molto ristretta della caverna. Nel 1957 Mansuelli e Susini, a coronamento di ulteriori studi e scoperte, potevano decisamente affermare che i materiali dell’età del bronzo, nonché quelli più recenti di epoca romana, rinvenuti nella grotta indicano in modo chiaro e inequivocabile un culto delle acque di sorgente; tale culto, derivato senza dubbio dall’uso terapeutico delle acque minerali, specie sulfuree, ebbe carattere votivo e oracolare e, a partire dal i sec. a.C., venne rinvigorito e perpetuato dai numerosi coloni romani stanziatisi nella valle del Senio (cfr. Imola nell’antichità, a cura di F. Mancini, G. A. Mansuelli, G. Susini, Roma 1957, pp. 71, 115 e passim; L. Costa, De Aquis Rioli. Cenni storici sulle Terme di Riolo, i. Dalle origini al sec. xvii, Faenza 1967, p. 31). Ritengo opportuno ricordare che, fra gli incavi eseguiti nella parete destra (per chi entra), Scarabelli (Notizie sulla caverna del Re Tiberio, cit.) ne segnalò particolarmente due «formati nella parte inferiore a guisa di abbeveratoio», che «vennero opportunamente scavati al di sotto di una piccola vena d’acqua sgorgante da una fessura della volta della caverna, ma che successivamente nello scorrere in basso lambisce una delle pareti. Così avviene che anche di presente uno di detti abbeveratoi trovisi ricolmo di acqua quasi perennemente, e sia per conseguenza un vero tesoro per tutti coloro che salgono a visitare la grotta». Di tali abbeveratoi uno, secondo quanto riferitomi dal sig. Riccardo Lanzoni, originario di Borgo Rivola, fu sconsideratamente danneggiato intorno al 1920 da alcuni visitatori faentini che ne demolirono il bordo, cosicché l’acqua non ebbe più modo di raccogliersi. Malgrado le osservazioni eseguite nell’arco dell’ultimo trentennio, l’abbeveratoio superstite era risultato sempre in secca ed anche la vena d’acqua sembrava fosse totalmente scomparsa, tanto da far ipotizzare che la sorgente di cui parla Scarabelli fosse in realtà uno stillicidio non perenne di acque di origine meteorica percolante attraverso una frattura nei banchi selenitici, ora estinto. Ma nel corso di un sopralluogo effettuato il 22 maggio 1990, il sig. Sandro Bassi del Gruppo speleologico faentino, ha potuto constatare che l’abbeveratoio ancora esistente, e cioè il terz’ultimo incavo a partire dall’interno della grotta, era colmo d’acqua che tracimava dalla più bassa delle due scanalature praticate sul bordo. Le altre «vaschette» erano invece completamente asciutte. Il giorno precedente c’era stato un violentissimo temporale e nella volta sopra l’abbeveratoio persisteva ancora un sensibile stillicidio.

(44) Scarani, Gli scavi nella Tanaccia di Brisighella, cit.

(45) Bentini, Manufatti preistorici litici e in osso rinvenuti in Romagna, «Studi Romagnoli», 21 (1970), pp. 285-311.

(46) Bardella – Busi, Testimonianze, cit.

(47) F. Frassetto, Frammenti di scheletri umani rinvenuti nella Grotta del Farneto presso Bologna, «Proteus», 3 (1905) (ii-iii).

(48) F. Facchini, Resti scheletrici umani rinvenuti presso la grotta del Farneto (Bologna), in Preistoria dell’Emilia e Romagna, i, cit., pp. 167-213; Id., Nuovi rinvenimenti scheletrici umani nel deposito sottoroccia  della grotta del Farneto, «Arch. Antropol. Etnol.», 101 (1971), pp. 147-166; Id., I reperti osteologici della stazione del Farneto e il loro interesse antropologico, in Atti vii Conv. Spel. Emilia-Romagna, cit., pp. 117-126.

(49) Scarani, Gli scavi nella Tanaccia di Brisighella, cit.; Facchini, Osservazioni sui resti scheletrici della Tanaccia di Brisighella (Ravenna), «Studi Etruschi», s. ii, 32 (1964), pp. 143-155; Bentini, Manufatti preistorici, cit.

(50) Scarabelli, Notizie sulla caverna del Re Tiberio, cit.; Bentini, Le ultime scoperte paletnologiche, cit.; Facchini, Note su alcuni resti scheletrici umani rinvenuti nella Grotta del Re Tiberio (Riolo Terme, Ravenna), in Atti del vii Conv. Spel. Emilia-Romagna, cit., pp. 280-286.

(51) L. Fantini, Le grotte bolognesi, Bologna 1934; P. Benedetti – V. Bertolani – A. Rossi, Studio archeologico-paletnologico della stazione in grotta (Grotta di fianco alla chiesa di Gaibola, 24/E), «Rassegna Speleologica Italiana», 24 (2) (1972), pp. 131-139; Facchini, Note antropologiche sui reperti scheletrici della Grotta della Gaibola (Bologna), ibid., pp. 140-145.

(52) Scarani, Sui riti funebri nella preistoria emiliano-romagnola, «Emilia Preromana», 5 (1956-1964), pp. 139-270.

(53) M. Degani, Il periodo eneolitico nella Provincia di Reggio Emilia, «Römische Mitt.», 54 (1939), lt. 289‑308; Facchini, Le antiche popolazioni del territorio emiliano-romagnolo. Sintesi antropologica, «Emilia Preromana», 7 (1975), pp. 299-324. La Tana della Mussina, in comune di Albinea (Reggio Emilia), ha restituito ossa umane sconvolte e semicombuste, per cui è stato supposto che si trattasse di una grotta funeraria, in cui si sarebbe svolto un rituale consistente appunto nel bruciare i cadaveri. I resti trovati, andati purtroppo perduti, appartenevano ad almeno diciotto individui ed erano associati a frammenti ceramici, strumenti ed armi litiche appartenenti alla cultura di Remedello.

(54) V. Cianfarani, Culture adriatiche antiche di Abruzzo e Molise, i, Roma 1978.

(55) G. Cremonesi, La grotta dei Piccioni di Bolognano nel quadro delle culture dal neolitico all’età del bronzo in Abruzzo, Pisa 1976; Radmilli, Popoli e civiltà dell’Italia antica, 1, Roma 1975; Id., Guida della Preistoria italiana, cit., p. xxii; Id., Recenti scavi nella Grotta dei Piccioni di Bolognano, «Atti Soc. Tosc. Sc. Nat.», 85, Pisa 1978; Id., Pescara nei millenni, estr. da Pescara cinquant’anni, pp. 36, Pescara 1980.

(56) Scarani, Gli scavi nella Tanaccia di Brisighella, cit.

(57) A. Scaglioni, La Grotta del Farneto (prov. di Bologna). Morfologia e genesi, in Atti ix Congr. Naz. Speleologia, Mem. vii di «Rassegna Speleologica Italiana», 2, Como 1963, pp. 87-93; M. Bertolani – A. Rossi, Osservazioni sui processi di formazione e di sviluppo della Grotta del Farneto (Bologna), in Atti vii Conv. Spel. Emilia-Romagna, cit., pp. 127-136.

(58) Bardella – Busi, Testimonianze, cit.

(59) Unione Speleologica Bolognese   Gruppo Speleologico Bolognese cai, Il buco dei Buoi (29 E/BO), Bologna 1976.

(60) A. Veggiani, Il ramo del Po di Adria nella tarda età del bronzo, «Padusa», 1972, n. 3-4, pp. 123-136; Id., Prove e considerazioni su due periodi di dissesti idrogeologici nella Pianura Padana in epoca storica, in Atti Ufficiali Conv. Naz. di Studi sui problemi della Geologia Applicata, Firenze 1973, pp. 157-164; Id., Territorio, Ambiente, Clima. Le trasformazioni nei tempi protostorici. Emilia-Romagna: parte orientale, «Studi e Documenti di Archeologia», iii, Bologna 1987, pp. 73-80.

(61) F. Mayr, Untersuchungen über Ausmass und Folgender Klimaund Gletscherschwankungen seit dem Beginn der postglazialen wärmezeit, «Zeitschrift für Geomorfologie», viii/3 (1964), pp. 257-285.  

(62) D. Bertolani Marchetti, Ricerche palinologiche in relazione agli eventi climatici in epoca storica, in «Atti Soc. Nat. Mat. di Modena», 99 (1968), pp. 136-144.

(63) R. Di Marinis, L’età dei Bronzo, in Preistoria e protostoria nel Reggiano, cit., pp. 31-55.

(64) P. Zangheri, La stazione preistorica dei Cappuccinini (Forlì), e considerazioni sulla paleogeografia quaternaria della Pianura Romagnola, in Preistoria dell’Emilia e Romagna, cit., i, pp. 287-319.

(65) Scarabelli Gommi Flamini, Stazione preistorica o villaggio di capanne nel podere «S. Giuliano» presso Toscanella, provincia di Bologna, ibid., pp. 25-44.

(66) De Marinis, Dall’età del Bronzo all’età del Ferro nella Lombardia orientale, in Gli Etruschi a nord del Po, i, Udine 19882, pp. 21-39.

(67) R. Carpenter, Clima e storia, Torino 1969, pp. 50-51.

(68) Veggiani, Territorio, Ambiente, Clima, cit.

(69) C. Bausta, Fratta Polesine (ro). Nota geosedimentologica concernente alcuni settori di scavo della locale necropoli pre-protostorica, «Padusa», 18 (1982), n. 1-4, pp. 28-35; G. Bermond Montanari – M. De Min, La penetrazione umana e l’organizzazione territoriale, in Il Delta del Po. Natura e civiltà, Padova 1983, pp. 53-77.

(70) L. Bentini, Un reperto archeologico, "Ipogea 1988-1993", Boll. del Gruppo Speleologico Faentino, Faenza 1993, pp.22-23; ID., Un nuovo reperto di età protostorica in una grotticella di Monte Mauro, "Ipogea'99", Faenza 2000, pp. 19-21

 

Speleo GAM Mezzano (RA)