Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974

  
DAL FONDO DELLE LAGUNE AI CRINALI APPENNINICI
LA STORIA DEFORMATIVA DEI GESSI
     

Gian Battista Vai

    

Fig. 1 - Cascata di pieghe a zig-zag nella Formazione Marnoso-arenacea a strati verticali, Fiume Santerno presso Coniale. (foto A. Landuzzi)


Fig. 2 - La Vena del Gesso sul versante sinistro del Santerno. (foto G.B. Vai)


Fig. 3 - Le due scaglie a banchi gessosi di Monte Incisa e Co' di Sasso sovrapposte tettonicamente e separate dalla Formazione Marnoso-arenacea, nel bosco, da cui emerge una grande massa bianca isolata di calcare a Lucina. (foto G.P. Costa)


Fig. 4 - Fenditura in un banco di gesso (a destra dell'asta con tacche di 20 cm), riempita da gesso ricristallizzato a grandi cristalli limpidi. (foto G.B. Vai)


Fig. 5 - Sericolite o gesso fibroso di faglia, Cava ANIC. (foto G.B. Vai)


Fig. 6 - Schizzo paleogeografico del Nord-Italia nel Tortoniano (ca.10 milioni di anni). In marron le aree emerse, dal grigio chiaro al grigio scuro i mari a profondità crescente. (da Vai, 1988)


Fig. 7 - Denominazione, assetto e evoluzione delle varie porzioni che costituivano l'antico bacino adriatico. (da Vai, 1989 mod.)


Fig. 8 - Calcare a Lucina, grossi bivalvi marini, cresciuti in gran numero anche a profondità considerevoli presso venute di gas ricche di metano nutritivo. (foto G.B. Vai)


Fig. 9 - Evoluzione sedimentaria e paleotettonica della Vena del Gesso romagnola durante il Messiniano tra il Sillaro e il Forlivese. (da Marabini & Vai, 1985)


Fig. 10 - Schizzo paleogeografico del Nord-Italia nel Messimano medio (ca. 6 - 5,5 milioni di anni). In marron le aree emerse, in verde i laghi salmastri, dal rosa al viola i depositi evaporitici di profondità crescente. (da Vai, 1988)


Fig. 11 - Schizzo paleogeografico del Nord-Italia nel Messiniano superiore (ca. 5 milioni di anni). In marron le aree emerse, in rosa i depositi evaporitici, dal verde chiaro al verde scuro i laghi salmastri di profondità crescente. (da Vai, 1988)


Fig. 12 - La duplicazione tettonica delle bancate gessose sul Monte Penzola. (foto P. Lucci, Speleo GAM)


Fig. 13 - Schizzo paleogeografico del Nord-Italia nel Pliocene inferiore (ca. 4 milioni di anni). In marron le aree emerse, in verde chiaro i laghi, in verde scuro i bassifondi carbonatici, dal grigio chiaro al grigio scuro i mari di profondità crescente. (da Vai, 1988)


Fig. 14 - Schizzo paleogeografico del Nord-Italia nel Pleistocene (ca. 0,5 - 1 milione di anni). Legenda come in Fig. 46. (da Vai, 1988)


Fig. 15 - Sezioni geologiche attraverso la Vena del Gesso. Per l'ubicazione delle sezioni si veda la Carta Geologica (da Marabini & Vai 1985, mod.)

Chi percorra le alte valli dell'Appennino Romagnolo, sostando ad ammirare il panorama dalla sommità dei crinali, ammirerà la fuga degli strati della Marnoso-arenacea estesi a perdita d'occhio e individuabili singolarmente. E si farà un'idea generale di una disposizione sostanzialmente piatta o poco inclinata degli stessi (quelle strutture che i geologi chiamano "monoclinali"). Solo nella profondità delle valli o lungo versanti scoscesi potrà osservare delle pieghe ad angolo retto, con improvvisi raddrizzamenti degli strati fino alla posizione verticale. Nel caso più fortunato, viaggiando comodamente in auto potrà sostare ad esempio in prossimità del ponte di Coniale, risalendo la valle del Santerno, per godere lo spettacolo di una cascata di pieghe a zig-zag nella Marnoso-arenacea (Fig. 1).

Difficilmente però riuscirà a vedere grandi pieghe anticlinaliche (a forma di volta) e sinclinaliche (a forma di doccia), come è facile invece nell'Appennino Marchigiano. Ciò non significa che l'Appennino Romagnolo sia meno deformato di quello Marchigiano; anzi, forse è vero l'opposto. Ma perché e come avviene la deformazione nelle rocce? Ciò che sorprende maggiormente il pubblico, privo di preparazione geologica, è il dovere ammettere che le rocce, indubitabilmente formatesi in fondo al mare per i resti fossili che contengono, si trovino assai spesso a formare alte catene di montagne, oppure, ancor peggio, che il sollevamento conseguente abbia comportato inarcamenti, ripiegamenti, fratture, scorrimenti relativi di masse a stratificazione originariamente piatta. In una parola, non è facile immaginarsi che le rocce subiscano dei processi di deformazione meccanica, che in geologia si chiamano tettonica. Forse per noi italiani, abituati a convivere col terremoto, questo sforzo mentale dovrebbe essere più agevole. Dopo un grande terremoto, porzioni di territorio al di là di una faglia possono risultare rialzate di alcuni centimetri (fino ad alcuni metri lungo la grande faglia attiva di San Andreas in California) rispetto a quelle al di qua. Se il terremoto si ripete per un migliaio di volte in 100.000 anni, per esempio, si può ottenere un sollevamento di 100 metri, cioè una serie di colline (o di qualche chilometro, con una vera catena di montagne in California). Per spiegare il piegamento degli strati originariamente orizzontali ricorriamo a un esempio banale. Un mucchio di asfalto sagomato a forma di cubo di un metro di lato si manterrà rigido e inalterato nel piazzale di servizio di una highway canadese nella morsa dell'inverno artico; ma, all'improvviso arrivo dell'estate, fluirà lentamente in modo viscoso a formare una specie di polenta nera di alcuni metri di diametro e pochi centimetri di spessore. Basta cioè un aumento conveniente di temperatura e un tempo sufficientemente lungo per trasformare un materiale a comportamento rigido (e quindi inalterabile se non viene fratturato) in uno a comportamento plastico (e quindi modellabile nelle pieghe più sinuose, anche se di per sé oggi ci appare rigido). L'incremento di temperatura è fornito dal seppellimento in profondità (in media 30° C per km) e di tempo, in geologia, lo si sa, ce n'è anche da buttare.

Volendo descrivere la storia deformativa di evaporiti, è d'obbligo una premessa. Normalmente le evaporiti, per la solubilità dei sali che le compongono, hanno un comportamento estremamente plastico, facilitato anche dall'abbondante materiale argilloso a cui sono spesso associate. Ciò è ancora più marcato se ci sia incremento di temperatura (per seppellimento in profondità) o di pressione (quando la roccia sia sottoposta a sforzi deformativi). Il solo carico dei sedimenti sovrastanti è in grado di determinare flussi viscosi nelle evaporiti sepolte, con formazione di fittissimi arabeschi di pieghe e intrusione a forma di cupola (detta duomo o diapiro) nei sedimenti sovrastanti. L'insieme di questi processi viene indicato come tettonica diapirica, che può svilupparsi anche abbastanza indipendentemente dalla deformazione delle rocce circostanti.

Ebbene, nella Vena del Gesso ciò non avviene. A conferma che in natura ci sono sempre eccezioni. Il motivo principale risiede nel tipo di evaporiti (essenzialmente gesso), nella relativa scarsità di argilla (in certe bancate il tenore di gesso raggiunge il 95% e talora il 98%), nelle dimensioni cospicue e nell'intreccio saldo dei cristalli, nello spessore delle bancate evaporitiche. Tutti fattori, questi, che offrono rigidità e resistenza al gesso. Diversamente dal solito, qui il gesso è la roccia più solida, quella che forma i cucuzzoli e le cime più aspre del paesaggio, quella in cui sono abbarbicati i castelli e gli antichi abitati. Anche perché le argille, adiacenti al gesso, vengono dilavate o avviate ai fondovalle per colata, smottamento, scivolamento e frana, e quindi mettono in rilievo indirettamente il gesso. Dal suo comportamento anomalo si deve anche arguire che la Vena del Gesso non può essere stata sepolta da sedimenti prima di essere stata deformata, perché, in caso opposto, si dovrebbero evidenziare effetti di tettonica diapirica. Vedremo dopo se questa affermazione trova un riscontro indipendente.

Se in un terso mattino invernale si sorvola con un piccolo aereo la Vena del Gesso, si rimane colpiti dalla sua frammentazione in blocchi, più marcata verso il Santerno e il Bolognese, e da una sorta di duplicazione o addirittura triplicazione della dorsale gessosa, ben evidente dalla valle del Sintria al Lamone. In maniera meno eccitante, ma più economica, si può avere analoga impressione portandosi in posizione panoramica verso ovest lungo la statale da Borgo Tossignano a Fontanelice (Fig. 2), oppure a Tossignano, o lungo la strada che da Zattaglia porta al Monte di Rontana (Fig. 3). Se si sceglie invece l'osservazione da vicino, ad esempio lungo il fondovalle del Rio Sgarba o sulle alture di Rineggio o fra i dirupi boscosi di Monte Mauro, ci si accorge che i blocchi e le dorsali sono separati da faglia. In certi casi, come al Rio Sgarba, queste si vedono mirabilmente disegnate sulle pareti (occorre stare ad una certa distanza, perché, se ci si pone troppo vicini, certe strutture non possono più essere comprese in un solo sguardo). A mettere in risalto le faglie sono proprio le bancate che, col loro diverso spessore o la differente composizione interna o il colore più o meno chiaro, consentono di definire e misurare di quanto un blocco si è spostato relativamente ad un altro (come avviene per una strada tagliata da una fessura dopo un terremoto). Se la fenditura che separa i due blocchi non è troppo larga, guardandola da vicino apparirà come una vena riempita e cementata da grandi cristalli limpidi o lattiginosi di gesso, che si distinguono da quelli delle bancate per non avere le punte a forma di V e per essere completamente privi dei tubuli biancastri di rivestimento delle alghe filamentose. Essi rappresentano quindi gesso esclusivamente secondario o tardivo che, sciolto ad opera delle acque circolanti, ha tappezzato e riempito la cavità in un processo detto di ricristallizzazione (Fig. 4). In altri casi le faglie non si vedono direttamente, anche se sono suggerite da sottili venature biancastre riempite da fasci fíliformi o fibrosi di una particolare varietà di gesso chiamata, con nome assai allusivo, sericolite (Fig. 5). Che cosa, oltre alla sericolite, ci suggerisce che ci sia una faglia? Il fatto che al di sopra di una certa bancata non ci sia quella che aspettiamo nella successione regolare, ma ne ritorni una precedente (naturalmente poi seguita di nuovo dalla stessa successione). La regola è molto semplice: se non viene osservato il Principio di Sovrapposizione degli strati (1, 2, 3... n) deve essere intervenuto qualche accidente che ha turbato l'ordine iniziale, una faglia appunto, che fa duplicare irregolarmente due spezzoni corrispondenti di successione (1, 2, 3, faglia, 1, 2, 3). Questo è molto semplice a dirsi ma assai più complesso da verificare in natura. Nella Vena del Gesso è abbastanza facile e anche spettacolare a vedersi, perché gli strati sono ben esposti in parete, abbastanza diversi fra loro (o almeno in gruppi) e praticamente individuabili singolarmente, soprattutto i primi cinque e il sesto. Così, una stratigrafia di dettaglio che risolve spessori di alcuni metri, consente di misurare lo spostamento relativo dei vari blocchi lungo le faglie fino alla precisione della decina di metri. Un controllo stratigrafico così preciso ci consente di dire anche quando certe faglie si sono attivate, osservando quali sono gli strati che esse tagliano e gli strati che invece le ricoprono indisturbati.

Una indagine accurata di questo tipo ci ha permesso di individuare le tappe salienti di questa storia deformativa, che accenniamo per sommi capi.

1) Non erano tempi molto pacifici, geologicamente parlando, quelli in cui, verso la metà del Tortoniano, sui 9 milioni di anni fa, si stavano preparando le condizioni per trasformare il bacino profondo della Marnoso-arenacea in una serie di lagune evaporitiche (Fig. 6). Circa un milione di anni prima, il fronte della catena appenninica in formazione si era avvicinato molto all'attuale confine tosco-romagnolo (con la fase deformativa detta appunto "toscana"). C'era ancora instabilità, connessa con questo avanzamento del fronte della catena, sia sul fianco interno che su quello esterno del bacino di avanfossa della Marnoso-arenacea. Sul fianco interno, vicino al confine toscano, dal fronte della catena si distaccavano grandi frane sottomarine che interponevano ai sedimenti normali della Marnoso-arenacea dei materiali di origine ligure (tipo Argille Scagliose), chiamati appunto "olistostromi liguri". Sul fianco esterno, verso l'Adriatico, dove iniziava 1'"avampaese" indeformato e non subsidente, si trovava una specie di cercine o rialzo periferico dell'avanfossa che, per effetto dell'avanzamento della catena, tendeva a smembrarsi e a spostarsi più verso nord-est (Fig. 7).

Così, su di esso, dove in seguito si sarebbe formata la Vena del Gesso, nei sedimenti argillosi della parte più alta della Marnoso-arenacea si sviluppavano grandi smottamenti sottomarini a spese di materiale esclusivamente locale (chiamati slumps o frane in traformazionali). Attività dello stesso tipo è segnalata anche da frane sottomarine un po' minori che coinvolgono successivamente i primi calcari stromatolitici. Nel suo complesso, questa attività di smembramento del rialzo periferico (che viene indicata come "tettonica a blocchi" per trazione o estensione) sembra aver delimitato bacini tipo lagune (come nella Vena del Gesso) da bacini più profondi (come in Romagna orientale e nelle Marche) appena è sopravvenuta la crisi di salinità. Che l'attività tettonica controllasse in maniera imponente la sedimentazione è manifesto in maniera singolare in depositi noti come "calcari a Lucina ". Essi formano, per lo più, delle serie di ammassi dal metro alla decina di metri apparentemente dispersi dentro le argille pre-evaporitiche, ma allineati a rosario lungo delle faglie. Le Lucina sono grossi molluschi adatti a vivere su fondali tranquilli marnoso-argillosi (Fig. 8). Si riteneva che il loro aspetto lentiforme dentro le argille derivasse proprio da scivolamento dal ciglio con caduta al piede delle scarpate sottomarine prodotte da queste faglie. Oggi si pensa invece che le lenti a Lucina si siano formate direttamente in prossimità delle faglie. Infatti, in analogia a quanto recentemente scoperto in varie parti dei fondi oceanici e marini caratterizzati da faglie, ricche esalazioni di metano, idrogeno solforato e altri gas risalgono lungo le faglie e sono in grado di fornire le condizioni alimentari adatte allo sviluppo di una catena di organismi, spesso ipertrofici, anche al di fuori del loro normale ambiente di vita. Se ci limitiamo a leggere la storia nel tratto meglio esposto della Vena del Gesso, dall'alto Sellustra al Lamone, possiamo individuare le altre tappe (Figg. 9 e 10).

2) Per tutto il tempo corrispondente ai primi sei cicli delle evaporiti le condizioni sono rimaste sostanzialmente tranquille e la subsidenza è stata regolare in tutta l'area con massimi relativi nella valle del Senio. Ce lo testimonia la regolare e costante presenza di tutti i primi sei banchi.

3) Dopo il sesto ciclo, invece, deve essere capitato qualcosa di importante, che ha sconvolto l'unitarietà del bacino. Infatti oggi noi vediamo certe colline e certe montagne della Vena del Gesso nelle quali si possono contare tutte le bancate gessose più sottili al di sopra della sesta (per esempio a Monte Mauro, al Rio Stella, al Rio Sgarba e alla Paradisa di Borgo Tossignano). Altre, invece, ne sono prive, in parte o del tutto (come al Monte Penzola, al dirupo di Sasdello sul Santerno, a Tossignano e alla Torre dell'Orologio in Brisighella). Se andiamo a vedere i rapporti fra le rupi dove la successione dei cicli gessosi è completa e dove non lo è, troviamo le faglie verticali, di cui s'è detto. Queste separano blocchi delle dimensioni dal mezzo chilometro ad alcuni chilometri, rialzati e abbassati relativamente uno all'altro. L'area dal Monte Penzola al Rio Sgarba è la più adatta per fare questo tipo di osservazioni. Il lettore attento e ormai allenato a porsi i dilemmi di queste ricostruzioni della storia geologica si chiederà se questo alzarsi e abbassarsi di blocchi, documentato dalle faglie che li dividono, sia avvenuto prima della formazione dei cicli successivi al sesto o se invece abbia avuto luogo solo al termine dell'ultimo ciclo gessoso, durante la fase di emersione di cui abbiamo già parlato. Nel primo caso, nei blocchi rialzati i cicli postsesto non si sarebbero mai deposti; nel secondo, invece, sarebbero stati erosi. Probabilmente sono avvenuti tutti due questi processi. La prova del primo, comunque, ci è fornita da esempi spettacolari dentro la grande Cava ANIC di Borgo Rivola, dove si vedono alcune faglie verticali, orientate come quelle che separano i blocchi, che sono sigillate dall'ottavo ciclo, per cui devono essersi attivate prima.

4) Così, solo nei blocchi che si trovavano in subsidenza si è formata la successione completa dei cicli evaporitici, mentre sugli altri non c'è stato deposito, anzi può essersi manifestata erosione. Può essere capitato anche che dal ciglio di questi blocchi in sollevamento pezzi di bancate gessose instabili siano cadute dentro alle lagune circostanti. Li troviamo oggi, ad esempio nel Parco Carnè, in forma di massi delle dimensioni dal metro alla decina di metri, che appaiono isolati e un po' alieni all'interno di bancate gessose di cui non hanno le caratteristiche. Anche l'inondazione salmastra che iniziò la Formazione a Colombacci raggiunse solo i blocchi subsidenti, risparmiando quelli rialzati, almeno per un certo tempo.

5) Poi, all'improvviso, nel breve volgere di 100 o 200 mila anni, avviene la rivoluzione tettonica di cui si è accennato prima (Fig. 11) Tutta la Vena del Gesso, compresa la porzione sepolta nel sottosuolo fin quasi all'Imolese, viene incorporata al fronte di una vasta fascia soggetta a compressione, da cui si originerà la porzione detta intramessiniana della Catena Appenninica. Si immagini il lettore l'effetto di un ragazzotto mattacchione, che irrompa nel salotto buono e cerchi di frenare la sua corsa, senza riuscirci, proprio sul tappeto persiano.

Succederà che il tappeto ne attutirà l'urto ripiegandosi a soffietto in maniera multipla e asimmetrica, accorciandosi rispetto alla lunghezza iniziale. Un qualcosa di simile è capitato anche qui, con pieghe così brusche da arrivare fino allo strappo, verso l'Adriatico, e spesso anche al controstrappo, verso l'Appennino. Questa viene chiamata "tettonica compressiva tangenziale", perché origina delle superfici di strappo (taglio) tangenti o quasi parallele alla superficie terrestre. Gli effetti di questa tettonica sono ben visibili nelle duplicazioni e triplicazioni della successione regolare delle bancate evaporitiche della Vena del Gesso. L'esempio più spettacolare è quello esposto proprio sulla cima del Monte Penzola, dirimpetto a Fontanelice.

Qui c'è duplicazione della successione evaporitica sopra al sesto ciclo e si può osservare direttamente la superficie dove è avvenuto lo strappo che ha portato a una sovrapposizione della porzione strappata secondo un piano quasi orizzontale (Fig. 12).

Come si riesce a dire che questa intensa deformazione compressiva è avvenuta nel Messiniano? Usando il classico criterio della discordanza. Infatti, in campagna, ad esempio sopra le duplicazioni del Torrente Sintria (sezioni geologiche in Fig. 15) o nei dintorni di Rineggio, troviamo la parte alta delle Formazioni a Colombacci disposta come a sigillare le superfici di strappo, o le faglie verticali che separano i blocchi. I movimenti relativi fra i blocchi, così come gli strappi con relative duplicazioni, devono essere avvenuti perciò prima del Messiniano superiore, perché la Formazione a Colombacci non ne è stata interessata, almeno da un certo momento in poi.

6) Il primo più importante evento nella costruzione dell'Appennino Romagnolo si è così compiuto nel Messiniano superiore. Ma altri lo hanno seguito. La storia deformativa, infatti, non si è esaurita in quell'evento. pur tanto importante; essa è perdurata per i cinque milioni di anni successivi, ancora intensa, ma in progressiva diminuzione (Figg.13 e 14). Come facciamo a dirlo? Basta guardare alle Argille Azzurre, che formano la gran parte dei nostri calanchi. A dire il vero, qui non è così facile distinguere gli strati come nella Marnoso-arenacea o nella Vena del Gesso. Per prima cosa, bisognerebbe decorticare le frastagliate pareti dei calanchi dalla sottile crosta di argilla che le riveste per colamento durante le piogge. Poi, anche allora gli strati si intravvederebbero talora con fatica. Quanto basta, però, per vedere che non sono orizzontali ma inclinati, in modo spesso marcato, specialmente quelli più antichi di circa 3 Ma. Sono un po' meno inclinati, invece, quelli di età compresa fra 3 e 1 Ma. Dobbiamo ammettere allora che ci siano stati altri eventi durante i quali i nuovi strati deposti sono stati deformati, anche se in maniera meno violenta dei precedenti. I quali, naturalmente sono stati rideformati insieme ai nuovi; come dimostrano faglie che tagliano indifferentemente rocce di età messiniana e pliocenica.

7) A ben guardare, però, neanche gli strati più recenti di 1 Ma sono completamente indisturbati (Figg. 13 e 14). Essi non mostrano certo nè pieghe nè inclinazione maggiore di quella che avevano al momento della sedimentazione. Spesso, però, sono fagliati e, in ogni caso, in pianura sono sprofondati mentre al bordo pedeappenninico sono stati sollevati fino a 300 metri sul mare. Faglie con movimenti relativi di un metro sono state trovate addirittura in alluvioni fluviali di 20-30 mila anni fa.

 

Speleo GAM Mezzano (RA)