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Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
PRODUZIONE, ARTIGIANATO E COMMERCIO NEI SECOLI XIX E XX Susanna Raccagni Un
secolo dopo, la stessa Inchiesta agraria del 1881 segnala
condizioni diverse nel sistema di vita delle polazioni.
Con
l'arrivo dei Francesi nel 1896, con l'abolizione dei vincoli feudali,
le forme della proprietà si sono avviate verso una più rapida trasformazione
e, con esse, il sistema di produzione capitalistico è entrato nelle
campagne e ha mutato volto al blocco di potere nobiliare-borghese che
governava e sfruttava il contado attraverso la commistione di rendita
fondiaria e interesse commerciale, grazie al persistere di una legislazione
affatto scevra da vincoli feudali, pur nel contesto delle recenti trasformazioni
(1). Tra
gli altri indicatori - le
politiche economiche, la liquidazione dei beni demaniali e di manomorta - l'aumento
della popolazione e la successione ereditaria contribuiscono al
frazionamento della proprietà.
Con gravissimi effetti sociali al monte, ove tradizionalmente predomina,
e anche al colle, dove è più largamente diffusa la media proprietà.
Ne resta persino compromessa l'economia di sussistenza. D'altronde
sono i decenni in cui viene progressivamente a cadere la possibilità di sfruttare le risorse
economico-alimentari del bosco, o di
ricorrervi in tempo di carestie. Per
le vendite demaniali -
lo
abbiamo scritto -
ma anche perché il bosco
è sempre più aggredito: da nuovi appoderamenti, più che
altro rivolti alla cerealicoltura (2);
dal
loro degrado concomitante all'erosione
dei suoli, complice lo sfruttamento boschivo industriale. Come
nel
caso di Tossignano, nella cui economia legno e carbone saranno
due
voci importanti nelle esportazioni. Il
clima
tra grandini, nebbie,
brine (particolarmente lamentate a Brisighella) e frane (proprio in relazione
al degrado boschivo che sconvolge l'alto monte per poi ripercuotersi
verso valle con alluvioni e decorticazione dei suoli) -
riversa gli effetti negativi sulla produzione e in particolare
sul sostentamento delle piccole
famiglie. Tanto più che la tendenza all'aumento della
popolazione è generale e investe l'intero circondario di
Faenza entro il quale si trova la Vena gessosa romagnola. Dall'esame
dell'Inchiesta agraria, si colgono in buona parte le
trasformazioni economiche avvenute all'insegna della capitalizzazione
delle campagne. Innanzitutto si apprende che la predilezione della
coltura cereale ha base d'appoggio nella
crescente divisione dei maggiori possessi in poderi più o meno
ristretti, coltivati da una famiglia agricola d'ordinario povera,
quand'anche proprietaria del fondo che lavora (3):
dunque
siamo allo spezzettamento dei coltivi in cellule produttive
minime e spesso insufficienti così che il podere è
un'azienda autonoma. Per
quanto riguarda i sistemi di conduzione attivati, la mezzadria
è prevalente. Pochi sono gli affitti e quasi assente
la boaria. Nel complesso al monte ed alto colle, le colture predominanti
sono frumento e granoturco, oltre al castagneto. Via via che si scende
verso il colle, ai castagneti subentra la vite, il prato, o meglio la coltura foraggiera.
Rimanendo alle rese agricole, Tossignano produce ed esporta: castagne, vino e uva. Traduce la fertilità dei suoi suoli in
sementi di grano e differenzia i terreni alti da quelli pianeggianti: il rapporto indicato è di uno a due. Casola
Valsenio: non ha voci di importazione perché "basta a
sé"; esporta castagne. Lo stesso vale per Riolo che non importa ed esporta vino e uva, frumento e altri grani. E Brisighella,
che pure esporta frumento e altri grani, importa
però vino e granoturco, canapa e castagne. I la frantoi di olive. E anche
l'unico comune che vanta uno stato della
viabilità addirittura ottimo, mentre gli altri comuni parlano
tutti di condizioni deplorevoli. Le ragioni di ciò mi pare
vadano ascritte a circostanze storico-economiche anche
di lungo periodo. L'economia di Brisighella è infatti piuttosto salda e articolata, e soprattutto è legata alle esportazioni
ormai da secoli. Sul finire dell'Ottocento, poi, persistono e si rafforzano le esportazioni industriali: frumento e
bozzoli per la seta, olio. Dell'allevamento,
quello ovino e caprino è per noi il più interessante,
in ragione degli spazi incolti e della presenza
di boschi (la tendenza generale li dà in crescita al monte
e in decrescita verso valle ove sono sostituiti dai bovini). La
tabella seguente riporta i dati relativi a Brisighella, Caste]
del Rio e Casola, Tossignano e Riolo:
All'incirca
un capo per ettaro non arativo (4). Evidentemente
le asperità geologiche della fascia gessosa attorno
a Brisighella e Casola bastano a ridimensionare lo
stupore manifestato nell'inchiesta per "la quantità di 100
caprini a Brisighella e 608 a Casola, mentre ovunque la
capra è negletta e ripudiata" (5).
Però il commento è interessante,
perché in effetti l'incompatibilità tra agricoltura
e pastorizia si rafforza. Si pensi anche soltanto per un
attimo al moltiplicarsi degli interventi contro lo sfruttamento
"indiscriminato" dei boschi da parte delle stesse
popolazioni. D'altronde l'economia si va sempre più restringendo e
dimensionando attraverso i princìpi stabiliti dal capitalismo.
Non bisogna sottovalutare il fatto che l'alimentazione era peggiorata, che la dieta era meno varia
e che le genti - soprattutto
al monte - erano più esposte alla fame in caso di cattivi raccolti. Tra le malattie
più diffuse l'Inchiesta segnala, guarda caso, proprio la pellagra
e lo scorbuto. E se "l'accattonaggio si fa solo per la impotenza al lavoro e per la povertà... i furti campestri non
sono pochi, specialmente all'epoca delle uve" (6). Solo
acqua e polenta ripete l'alimentazione nei monti di Riolo;
molto granturco e poca carne a Casola. È ovvio quanto siano lontano i tempi della varia - seppur non abbondante -
dieta medievale. Senz'altro migliore il quadro
alimentare del contadino: polenta di granoturco, sì, ma
anche mista a fagioli. Pane misto di frumento e granturco.
Molto lardo e poco olio. Poca carne bovina, ma suina e
di pollo a sufficienza. Vinelli e mezzi vini. Nondimeno, risalendo
verso la montagna, i principali alimenti sono il granturco
e le castagne. E ancora peggiore è l'alimentazione dei giornalieri,
neo-soggetti sociali del capitalismo nelle
campagne: la loro dieta è di pane o pan misto, di polenta
senza vino né condimento (7).
Passando al commercio, i prodotti sono quelli tipici di un'economia
rurale: vino, uva e bestiame (Tossignano e Riolo);
bozzoli (Riolo e Brisighella); castagne (da Tossignano). Ma soprattutto ci importa qui marcare - sempre per Tossignano -,
oltre alla legna da ardere, il
carbone: perché sono infatti
questi gli anni in cui il comune aliena gran parte
del suo patrimonio boschivo. Nell'Inchiesta non vi è traccia di artigianato per questi comuni. Eppure sappiamo - sulla
scorta del Metelli - che
almeno a Brisighella viva era la produzione di cappelli di lana, merce
d'esportazione (8).
Era
altresì diffusa la lavorazione del cuoio. Venendo
ai Gessi bolognesi, tornano alcune delle caratteristiche
fin qui segnalate per quelli romagnoli: la tendenza
al disboscamento e alla commercializzazione dei suoi prodotti,
la diffusione di colture cerealicole seppur qui più pregiate.
Entro questa cornice comune, il quadro assume tinte
diverse a seconda delle componenti morfologiche dell'area.
E il caso di Gesso i cui dintorni sono meno aspri rispetto
ad altre località della fascia romagnola. Durante la prima metà
dell'Ottocento, nell'economia locale spicca
infatti l'alta produzione di frumento e frumentone (rispettivamente 16494
corbe
e 6809
annue
per i comuni di
Zola e Gesso) in accordo con la produzione media che nei
decenni 1819-28;
1829-38;
1839-48;
e
negli anni 1847-1855
attesta
grande produzione di frumento e frumentone;
calo di fava e di lupinella; crescita della canapa.
Tutti dati che indicano un maggior sfruttamento del territorio
entro i confini dell'intero bacino produttivo compreso
tra i torrenti Samoggia e Lavino. Gesso e Zola vantano
l'alta produzione di fieno. D'altra parte la loro economia
è al primo posto nell'allevamento di buoi e manzi (729
capi);
è seconda per vacche e manze solo a Savignano
(514
capi contro 544)
e
a Crespellano per sopranni e vitelli
(411-476) e
per maiali (516-600).
Penultimi,
invece,
nella produzione di ovini (9).
Dunque, si diceva, vasto sfruttamento del suolo. Che ritroviamo
anche altrove, un po' dappertutto lungo la fascia gessosa
emiliano-romagnola, là dove non esistano specifici
impedimenti all'agricoltura, contingenti a fattori geo-pedologici. Oggi
il quadro d'insieme, in parte simile, ci è documentato dalla Carta
delle vocazioni agrarie dei suoli (v. cap. 6).
Essa
attesta per esempio colture agricole -
senza o con particolari restrizioni -
su larga parte dei terreni compresi
perimetralmente nella fascia gessosa croarese, soprattutto là dove i
declivi sono a più debole inclinazione. Qui primeggiano grano e
frumento,
foraggio anche sui bordi delle
doline, alberi da frutto e vite (però le vaste piantagioni
di uva nera che in passato davano un vino piuttosto alcolico già negli
anni '60 erano ridimensionate a una produzione
per consumo locale) (10):
tutto sommato le
tipologie confermano le vocazioni colturali di oltre due secoli prima
e di cui ci ha parlato il Calindri. In aggiunta rispetto ad allora,
sappiamo che le coltivazioni nella fascia gessosa si avvantaggiano di
specifiche condizioni climatiche e
geo-pedologiche: l'inversione termica esistente tra monte e piano è favorita dall'accumulo di nebbie in pianura, così
che ne risulta ostacolata l'intensa irradiazione nelle ore centrali
delle giornate. Oltre al fatto che le rocce gessose, naturalmente
ricche di acqua al loro interno, assumono perciò funzioni termoregolatrici (11). Lo
sfruttamento del gesso in epoca moderna Nella
prima metà dell'Ottocento a Gesso prosegue lo sfruttamento
della sua "copiosa cava di gesso, la quale serve a
benefizio dell'arte muraria per le borgate e distretti del contorno".
Vi lavorano 7 famiglie di gessaiuoli le quali "in
10 mesi lavorativi estraggono quasi 30.000 tonnellate
di gesso, pari a 40.000 corbe per anno (12).
Il trasporto del
materiale avveniva mediante birocci: pochi decenni prima
era ancora a carico di cavalli e giumente. Altrettanto
intenso è lo sfruttamento delle cave in Romagna ad un decennio dalla
fine del secolo scorso: tant'è che "l'uso delle
mine", "il picchiare continuo nei forni", "il romore
dei carri" (Lega) valgono la felice rappresentazione di quel
che oggi si suol definire "inquinamento sonoro". Nei primi
decenni del nuovo secolo, nella provincia di Bologna, completavano il
quadro delle cave di gesso quelle di Monte
Capra, fra il Lavino e il Reno; di Monte Donato, fra
l'Aposa e il Savena; di San Ruffillo, sulla destra del Savena;
di Ca' dei Santini presso Monte Calvo, tra Savena e Zena (13). Nella
"Vena del Gesso" romagnola, quella
di Sassatello, fra Sillaro e Santerno; di Tossignano, sulla destra
del Santerno ma in provincia di Bologna dal 1886; Unica
variante ai tempi di Simonelli -
rispetto alle note del Bombicci di
cinquant'anni prima -, la lignite al posto
delle fascine. Tanta "primitiva e grossolana" tecnologia dava comunque i suoi frutti se, nelle province di Bologna e
Ravenna verso gli anni '70 del secolo scorso, la produzione annua
di gesso da cuocere si aggirava rispettivamente
attorno alle 30
mila
tonnellate (a Bologna) e alle 10-15
mila (a Ravenna) (15). Fuor d'ironia, evidentemente il merito di ciò andava al lavoro
massacrante e disumano di
quegli "uomini che resi bianchi dalla polvere... sembravano tante statue ambulanti" (16).
La
paga dei 6 operai
che nel 1863
lavoravano
nelle due fornaci di Crivellari e Costa nel comune di Riolo era pari a 1
lira e 60
al
giorno, più o meno l'equivalente di mezzo quintale di gesso
(17). Nel
quadro di relativa immobilità tecnologica or ora descritto,
sorprendono i calcoli di Simonelli circa i ritmi estrattivi
nella provincia di Bologna per il 1916.
Egli
infatti,
sulla scorta dei dati editi a Roma dalla "Rivista del Servizio
Minerario" per quell'anno, stima in ben 500 mila
tonnellate annue la produzione di gesso cotto per la provincia
di Bologna. E ciò in mancanza di apprezzabili incrementi
per la provincia di Ravenna ferma -
ancora nel 1916
- alle
15 mila tonnellate annue di mezzo secolo prima
(18). Attendibile
o no il dato, certo è che il rilievo statistico si
complica delle incognite di mercato per una produzione
che - come
quella del gesso - vi era
particolarmente soggetta, presentando un andamento incerto,
variabile sia di anno in anno e di
stagione in stagione, sia in rapporto al
numero dei proprietari di cava e al sistema delle affittanze
(19). Seppur
su scala ridotta, già allora si incontravano i problemi che oggi nominiamo "di impatto ambientale". "Nel
1912 - ha scritto di
Brisighella la Marangoni fu
richiesta la creazione di una zona di rispetto ritenuta indispensabile
come un primo provvedimento
per salvare gli edifici dalla rovina ma, dopo ripetute
istanze rivolte al Corpo Reale delle Miniere e alla Soprintendenza
dei Monumenti di Ravenna, si ritenne che esse non costituissero più
un pericolo dato che le vecchie cave di gesso
erano state abbandonate”
(20). Invece
nel novembre del 1923 si passò all'abbattimento di 4-5 casette
"piccole, primitive in gran parte costruite col gesso a cui si
appoggiano lungo la rampa che s'inerpica fra di loro, salendo da porta
Bonfante
fino alla Rocca" (21).
Insomma
"non si riuscì a tutelare l'integrità artistica del natìo
loco"... "facendo con quelle scomparire gli ultimi avanzi
degli abituri ove i primi valligiani si ricoverarono sotto la pro Di
più. Alle vecchie cave abbandonate subentrò la meccanizzazione dei mulini in sostituzione dell'energia animale,
nel primo dopoguerra. Si era giunti all'inizio del tardivo
processo di ammodernamento degli impianti, che Simonelli si augurava
decollasse subito ad imitazione delle
nazioni industrialmente più evolute. La preoccupazione
di fondo era di allargare per questa via le quote del mercato
d'esportazione che nel caso del Fornacione di San Ruffillo
arrivava fino al Transvaal. Suggeriva si importassero
i procedimenti tecnici statunitensi e canadesi sulla base
dei quali la pietra da gesso veniva frantumata prima della
cottura, garantendo per questa via la perfetta uniformità di
disidratazione nonostante il "maggior dispendio
di forze" (23).
Augurandosi
che le enormi caldaie per la
cottura a ciclo discontinuo fossero quanto prima rimpiazzate
con forni rotativi, essiccatori a tamburo a ciclo continuo (24).
Oltre
agli svariati tipi di gesso tradizionali nella
produzione edilizia (che attraverso distinti processi di
calcinazione a differenti temperature di cottura, comprese
tra i 120°
e 11.000' C, danno gesso a pronta presa, gesso da muro, o gesso
idraulico), Simonelli caldeggiava la sperimentazione di moderne
produzioni, per esempio di gessi-cemento. E
ciò, malgrado fossero falliti i precedenti tentativi di saggiare
inedite produzioni: i pannelli prefabbricati della ditta Selenit
con stabilimento a Casalecchio di Reno, e i prefabbricati
della Società Gessi Emiliani a Borgo Tossignano
(25)
. Oggi
nella Cava gesso ANIC
di
Borgo Rivola, in località Monte Tondo, una delle più importanti
d'Europa, l'abbattimento
del gesso sui gradoni è effettuato con volate di
mine cilindriche. Il minerale coltivato affluisce all'impianto
di frantumazione mediante un pozzo collettore verticale
di 5 metri di diametro (26).
Nel corso degli ultimi
decenni, gli usi del gesso si sono proporzionalmente estesi:
si va dagli impieghi agricoli (correttivo per terreni argillosi,
o elemento di base nella produzione di fertilizzanti azotati)
a quelli per l'industria chimica (additivo nel cemento
come ritardante di presa), ai più tradizionali dell'edilizia
(a cui devono aggiungersi gli svariati pannelli, cartonati,
espansi, ecc.), ad altri usi ancora, come per esempio
nell'odontoiatria. La Cava ANIC,
aperta
nel 1958, vent'anni
dopo straeva oltre 500 mila tonnellate annue di minerale. Questi
parrebbero - e
in parte lo sono - i
"vantaggi economici"
derivanti dallo fruttamento intensivo del gesso.
Ma non va taciuto che ai ritmi estrattivi dei primi anni '80 (pari a
600-700 mila tonnellate annue) la longevità della
cava si ridurrebbe a soli 25 anni (27). Dunque,
è a dir poco miope quella prospettiva che si apra e
chiuda con la rassegna sui più moderni impieghi del gesso, e
che eluda la domanda: quali e quanti i danni ambientali?
Enormi, evidentemente. Sia che si tratti di valutare le
"intere pareti lisce come specchi" dopo il taglio del filo
d'acciaio (28);
o gli
sforacchiamenti prodotti dalle tane delle mine; o ancora dagli
incunaboli che sotto Monte Croara
sono "larghi a volte fino a 6 m., percorsi da autocarri
carichi di blocchi di gesso, cunicoli che scendono a spirale in
profondità, ...distruggendo tutte le grotte e le cavità aturali che
incontrano sul loro cammino" (29):
in
pratica,
vere e proprie cicatrici, danno permanente, non riassorbibile
dall'ambiente naturale. Nessuno meglio di geologi e naturalisti ha
saputo illustrare il valore ambientale
della catena gessosa, inquadrandolo come patrimonio dell'intera
collettività. Se
del resto l'estrazione del gesso ha accompagnato -
com'è vero - la
storia dell'uomo fin dalla pre-protostoria, nondimeno
sino al secolo scorso la lavorazione artigianale
aveva salvaguardato entro sicuri limiti i danni ambientali.
Al contrario, oggi questa possibilità è venuta a cadere. Perché
l'homo faber dei nostri giorni - munito
delle più potenti e sofisticate tecnologie - è in grado di sbancare intere colline in brevissimi tempi. La
produzione che durante la seconda guerra mondiale nel bolognese
oscillava tra le 9
e
le 12 mila tonnellate annue, nel
1963
si
aggirava intorno alle 156
mila
tonnellate (30). Con
un'aggravante: che a tanto aumento di produzione non ha corrisposto,
proporzionalmente, l'auspicabile aumento
occupazionale. Nel 1885,
l'allora
modernissimo stabilimento
industriale della ditta Ghelli e C. estraeva a Ponticella
circa 1500 quintali giornalieri, grazie al lavoro di
una sessantina di operai complessivamente impiegati tra
cava e fabbrica. Ai principi degli anni '60
del
nostro secolo, lo
stabilimento maggiore, per estrarre da Monte Croara
2
mila
quintali giornalieri, ricorreva ad una quarantina
di operai (31). Analoga
situazione si registra sul tratto gessoso romagnolo.
Sulla scorta dei dati editi dal Rosetti nel 1894,
Marangoni
ha tracciato un rapido, quanto eloquente, prospetto
dell'evolversi della situazione. Dalle 5
cave
del 1894
si
passa alle due del 1974-75;
la
produzione media annua
ha un incremento di sei volte, e sale da 36 mila a 200-240
mila quintali. Viceversa
la manodopera impiegata scende da 50
a 19
addetti,
di cui 4
sono
cavatori, e i rimanenti
15,
operai
di stabilimento. In aggiunta, vi è poi il
dato sull'età media dei cavatori: in salita, si attesta attorno
ai 40-50
anni,
perché l'attività in cava è abbandonata
dalla forza lavoro giovane (32).
L'aumento della produzione e lo sfruttamento intensivo delle
cave a Brisighella sottintende l'allargamento del mercato.
Se nelle epoche passate il gesso di Brisighella serviva le vallate e poco oltre, oggi raggiunge l'Emilia-Romagna, Chiudiamo
su questo punto con una veloce rassegna sulle cave
esistenti entro la Vena bolognese e romagnola. La tabella
di seguito riportata specifica i casi in cui esse fossero
o non fossero attive alla fine degli anni '70. Cave
di gesso in Emilia-Romagna (35)
La
Cava denominata di Prete Santo, della Società Ghelli S.p.A.,
ha interrotto l'attività estrattiva nel 1979. In Italia, sullo scorcio
di fine secolo, è stata l'antesignana delle moderne
cave meccanizzate. Ricorda Vianelli: Nel
"Giornale dell'Esposizione Regionale Emiliana del 1888" si legge
che la "Fabbrica dei Gessi della ditta Ghelli & C. si presentò
con attrezzature moderne e
superiori anche a quelle delle fabbriche esistenti nei dintorni di
Parigi. La sua forza produttiva (...) si
basava sui mezzi meccanici agenti continuamente, giorno e notte, per
interi mesi (forno a fuoco continuo e fabbrica dei gessi funzionanti
mediante motori a vapore presso la miniera e relativi mezzi meccanici). Nell'88 la produzione
di gesso per l'edilizia e l'agricoltura era di oltre mille quintali
al giorno" (36). Numerosi
motivi hanno condotto alla chiusura: dalle interferenze degli scavi
condotti in profondità con il sistema
di grotte sotterranee, all'incompatibilità esistente tra l'attività
estrattiva e il vicino abitato di Ponticella, allo sconfinamento
dell'attività estrattiva in aree limitrofe alla concessione in proprietà
della Società (37).
Dopo
di allora,
opere di consolidamento per ovviare ai pericoli di dissesto
prodotti sono stati eseguiti dalla stessa ditta Ghelli, la
quale ha conservato l'uso della fornace antistante la cava
per la produzione di gesso e stucco di alta qualità. Il materiale
vi arriva dalla Cava di Borgo Tossignano (38). Anche
nella Cava Ghelli di Croara si è oggi provveduto a
bloccare l'attività estrattiva trovandosi "in una situazione
di dissesto generalizzato con aree a differenti livelli di
pericolosità" (39).
Praticamente
l'unico polo estrattivo in
funzione adesso nel Bolognese è quello di Gessi a Zola Predosa,
gestito dalla Società Emiliana Gessi, che lavora in
sotterraneo. Identica
sorte è toccata al giacimento Fiorini in località Farneto
di San Lazzaro di Savena, reso inattivo dopo la serie
di controlli eseguiti tra il 1977 e il 1981, che hanno marcato
l'elevata pericolosità della situazione morfologica
dell'area di cava e dei notevoli danni di carattere paesaggistico
e naturalistico che la cava stessa creava (interferenza
con la Grotta S. Calindri collegata con il sistema
ipogeo dei gessi bolognesi) (40). Sul
fronte romagnolo, la Cava di Monticano sopra Brisighella,
con i suoi 40 mila metri cubi di estratto annui, minacciava
la conservazione di un'area di estremo interesse storico-architettonico
e naturalistico: i tre colli brisighellesi,
Chiesa del Monticano, Rocca e Castello; la stessa valle della
Volpe o valle cieca, minacciata da un riporto di argilla (41).
Oggi la sua attività prosegue esclusivamente al fine
di un recupero della cava a parco-museo geologico (v. cap.
10, Itinerario 3). Concludiamo
con la Cava di Tramusasso sopra Borgo Tossignano.
Di proprietà della SPES
(Società
prodotti speciali) coltivava
solo in sotterraneo, seppure in un'area -
quella
del Rio Sgarba - di rinomato interesse paleontologico. I danni - si è scritto -
paiono essere limitati, nonostante
l'estrazione si aggiri sulle 80 mila tonnellate annue. Sarà bene, onde
evitare facili entusiasmi, ricordare con Vai che la
prima attività della cava "ha
distrutto alcuni sottoroccia ricchi
di selci lavorate e un suggestivo tratto semicarsico del Rio Sgarba, coperto
di grandi massi di frana con un laghetto ipogeo e vari accumuli
di ossami e materiali preistorici simili a quelli del sistema di grotte carsiche
del blocco di Tossignano....la stessa area SPES custodisce il più
ricco giacimento di pesci fossili del Messiniano in Italia" (42). Danno
per danno, la Società SPES
aveva
elaborato un programma
di estrazione a cielo aperto per alimentare un secondo
stabilimento specializzato in materiali edili del tipo
cartongesso. Una
produzione, quest'ultima, che avrebbe accentuato, e
di molto, i danni finora prodotti. Mentre da più parti si
caldeggiava la sospensione del piano, e fervevano le polemiche. A
noi non pare sia lontano dal vero chi vede nel progetto SPES
i pericoli
di uno sbancamento collinare per forza di cose
definitivo: sia chiaro "qui si tratta -
ha scritto Ricci
Lucchi - di sviluppo economico "pesante" per il territorio,
tale da alterare per sempre un paesaggio e un ambiente"
(43); nella
seconda metà degli anni '80 si arrivava
finalmente alla sospensione dell'attività e infine alla chiusura della
cava. (1)
R.
Gangheri,
La proprietà terriera e le origini del risorgimento nel
Bolognese,
Bologna, 1961,
p. 134 e
seguenti. (2)
Ibid.,
e inoltre la ''Relazione del Commissario Marchese Luigi Tanari'' in:
Atti
della giunta per l'Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe operaia,
Roma,
1881,
vol. II.
(3)
Ibid.,
pp.
12-19.
(4)
Ibid.,
p. 592. (5) Ibid., p. 592. (6) Ibid., p. 607. (7)
Ibid., p. 603. (8)
A. Metelli, Storia di Brisighella, op. cit., 343. E inoltre, cfr.:
E. Rosetti, La Romagna -
Geografia e storia, Hoepli, Mi, 1894. (9)
Franceschini, "Dati statistici intorno al bacino del
Torrente Samoggia e suoi aflauenti", in Memorie della Società
Agraria di Bologna, Bo, 1856-57,
pp. 130-147. (10)
V. Pallotti, op. cit.,
p. 148. (11)
Ibid., p. 125. (12)
L. Franceschini, ''Dati
statistici intorno al bacino del Torrente Samoggia e
suoi affluenti'', cit.. (13)
V. Simonelli, Il patrimonio minerario del Bolognese e
della Romagna, Siena, 1923, p. 28, Tip. Turbanti. (14)
V. Simonelli, op.
cit., p. 28. E, per
il confronto con l'autentica descrizione
del Bombicci, cfr.: L. Bombicci, Relazione sulle pietre edilizie
e decorative della
provincia di Bologna inviate a Roma per l'Esposizione Internazionale in Vienna,
1873, pg.
3. (15)
Per un raffronto tra i
dati delle due province, oltre a l.. Bombicci, op. cit., p.
4, cfr.: A. Metelli, Storia di Brisighella..., op. cit., vol.1 p. 46.
(16)
A. Lega, Fortilizi in
Val Lamone, op. cit., p. 28. (17)
S. Savorani, I
gessargli, cit., p. 145. (18)
V. Simonelli, op.
cit., p. 27, nota n. 2. (19)
L. Bombicci, op, cit.,
p. 4. (20)
D.
Marangoni, cit., p. 114. (21)
G.
Ceroni, "Per il nostro paesaggio", in "La Pie", n.
12, IV, Forlì, 1923,
pp. 277-278. (22)
Ibid. (23) V. Simonelli, op. cit., p. 29. (24)
Ibid. (25)
Ibid. (26)
M. Muccinelli, "Possibilità di impiego del gesso in
diversi settori", in "Giornata di studio sull'utilizzazione
delle risorse naturali di gesso a
favore dell'economia del
territorio", Casola Valsenio, 18 ottobre 1978. (27)
Regione Emilia-Romagna,
Parco regionale della Vena del Gesso - Linee
programmatiche per
l'elaborazione del piano territoriale del parco, marzo 1982. (28)
V. Paliotti, cit., pp.
149-151. del parco, marzo
1982. (29)
Ibid. (30)
Ibid. (31)
Ibid. (32)
D.
Marangoni, cit., p. 117. (33)
Ibid., pp. 118-119. (34)
V. Pallotti, cit., p. 153. (35)
Da una sintesi di dati editi da P. Federico, A. Parenti, "Io
sfruttamento dei giacimenti di gesso in Emilia-Romagna" "Il
Frantoio", 1980,
cit. in; "I beni naturali dell'Emilia-Romgna
- Gli affioramenti gessosi.
Proposte di tutela'', a cura dell'Istituto per i Beni Artistici
Culturali Naturali della
Regione Emilia-Romagna, p. 23. (36)
M. Fianchi, op. cit., pp. 76-77. (37)
A. Vignati, "Le aree
problematiche: le cave", in: Parco regionale dei
Gessi Bolognesi e dei
Calanchi dell'Abbadessa - Analisi
preliminari alla redazione del piano
- Relazioni tematiche,
dicembre 1989, p. 2
e seguenti. (38)
Ibid. (39)
Ibid. (40)
A. Vignati, cit. (41)
Regione Emilia-Romagna,
Parco regionale della Vena del Gesso
- Linee
programmatiche per
l'elaborazione del piano
territoriale del parco, marzo 1982,
cit. (42)
G.B.
Vai, "Parchi, cave e protocolli
di
intenti". (43) Ricci Lucchi, "E una decisione politica", in "La Lotta", n. 3 del 21/1/1982. |
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Speleo GAM Mezzano (RA)