LA GROTTA DEL
RE TIBERIO
Maria
Giovanna Bertani
La Grotta del Re Tiberio si
apre a m 175 di altezza s.l.m. entro Monte Mauro nella
valle del fiume Senio, in comune di Riolo Terme, ed è la più
nota tra le grotte che costellano la Vena del Gesso (Marabini
1996). Di formazione carsica e forse parzialmente sommersa
in epoche remote da acque fluviali (un torrente scorre
tuttora nell'area della grotta a maggiore profondità), la
grotta consta di un vano d'ingresso che si allunga, con
andamento angolato, fino ad una sala circolare di m 15 ca.
di diametro (la cosiddetta "cupola gotica":
Scarabelli 1872, p. 48), e di un esteso sistema di gallerie
e cunicoli, esplorato di recente per oltre due chilometri e
in parte irrimediabilmente alterato dagli interventi di una
cava di gesso (Bertani et al. 1994).
Giuseppe Scarabelli, che si
era occupato della grotta dal punto di vista geologico già
nel 1851 (Scarabelli 1851) e che nel 1856 ne aveva eseguito
il rilievo insieme all'amico Giacomo Tassinari, nel 1872 così
la descrive: "Apresi la bocca della caverna circa 90
metri al disopra del livello del fiume, ed il suo ingresso
piuttosto ampio e regolare [ ... ], mostra già
evidentemente essere stato così ridotto dalla mano stessa
dell'uomo. Questa infatti vi formava in sul davanti, in
ciascuno dei lati, una larga sporgenza a modo di gradino per
starvi seduti, e parimenti vi praticava collo scalpello,
nella parete a destra di chi entra nella grotta, vari incavi
rettangolari [ ... ]. Due fra questi incavi sono formati
nella parte inferiore a guisa di abbeveratoi, e come tali
infatti vennero opportunamente scavati al disotto di una
piccola vena d'acqua sgorgante da una fessura della vòlta
della caverna [ ... ]. Così avviene che anche di presente
uno dei detti abbeveratoi trovisi ricolmo d'acqua quasi
perennemente, e sia per conseguenza un vero tesoro per tutti
coloro che salgono a visitare la grotta. E però se ora ci
portiamo col pensiero a quei tempi remoti, in cui
quest'acqua [ ... ] dovette zampillare direttamente al di
fuori del monte da un qualche pertugio, ci sarà facile
inferire essere stata questa stessa sorgente d'acqua che avrà
destato probabilmente negli uomini d'allora la curiosità di
penetrare all'interno del monte [...]" (Scarabelli
1872, p. 46). Le testimonianze di un'antica presenza umana
nella grotta, cui Scarabelli fa riferimento nell'articolo
del 1872, avevano da pochi anni assunto concretezza
scientifica: sette anni prima, infatti, nel maggio del 1865,
Giacomo Tassinari, farmacista, naturalista dilettante e
fondatore, insieme con Scarabelli, del museo comunale di
Imola, vi aveva compiuto i primi scavi archeologici,
raggiungendo la profondità di tre metri e rinvenendo ai
livelli superiori frammenti di crogioli e resti di fusione,
e a quota inferiore un gruppo di vasetti miniaturistici,
materiali ceramici dell'età del ferro e dell'età del
bronzo e ossa animali. Se la presenza dei crogioli e lo
stato del deposito, che risultava intaccato da interventi
successivi, davano corpo alle tradizioni locali
sull'esistenza nella grotta di "monetarj falsi" (Scarabelli
1872, p. 49; in proposito Gelichi 1996), la potenza del
giacimento archeologico e i materiali rinvenuti attestavano
nel luogo una frequentazione prolungata, che Tassinari
assegnava con acribia a "diverses époques des áges
anté-historiques" (Tassinari 1865, p. 485). Nel
dicembre dello stesso anno Tassinari, forse in compagnia di
Scarabelli, compì una seconda esplorazione, che portò al
rinvenimento di "un gran numero" di vasetti
miniaturistici.
A Tassinari e Scarabelli, di
cui è nota almeno una seconda ricognizione congiunta nel
1869, si aggiunse come terzo ricercatore il faentino
Domenico Zauli Naldi, che, indotto dalla lettura del
resoconto del primo scavo del 1865, condusse nella grotta
altri due interventi di scavo, nel 1867 e nel 1869, nel
corso dei quali furono raccolti, oltre a molti resti di
crogioli e ritagli di lastre bronzee, a vasetti
miniaturistici e ad altri materiali dell'età del ferro, un
bronzetto di offerente, frammenti di ceramica a vernice nera
e in terra sigillata e alcune monete romane.
Un anno più tardi,
probabilmente in vista del Congresso Internazionale
d'Antropologia e d'Archeologia preistoriche che si sarebbe
tenuto a Bologna nel 1871, Scarabelli vi compì un accurato
scavo stratigrafico, che raggiunse a m 4,96 di profondità
il piano naturale della grotta e che, esemplare per
esecuzione e documentazione, restò per molto tempo
l'ultimo, e l'unico, intervento rigorosamente scientifico
realizzatovi.
Il saggio, aperto nel settore
più interno del vano d'ingresso, mise in luce una
stratificazione composta da cinque livelli di terreno,
distinti da piani di carbone e cenere e contenenti materiali
di cui già Scarabelli osservava la correlazione con gli
strati di rinvenimento: "e cioè che in ordine
discendente, tutti si riconobbero rappresentare un grado
sempre più decrescente nella civiltà degli uomini a cui
dovettero spettare" (Scarabelli 1872, p. 51).
Il livello superiore, fino a
m 1,75 di profondità, conteneva, insieme ad altro
materiale, anche frammenti di maiolica, risultando pertanto
riferibile (almeno negli interventi più recenti) alla
frequentazione post-classica; il secondo livello, fino a m
-2,91, includeva materiali di età romana (vetri) e
probabili frammenti di ceramica a vernice nera, che
parrebbero indicare un deposito successivo agli inizi del IV
secolo a.C., mentre il terzo livello, fino a m -3,26, resti
di vasellame non tornito, forse risalente in parte alle
prime fasi di frequentazione dell'età del ferro (cfr. infra);
dal quarto livello, fino a m -4,70, furono raccolti
frammenti ceramici collocabili nell'età del bronzo; infine
l'ultimo strato racchiudeva ossa umane, a testimonianza di
un originario uso sepolcrale della grotta (Scarabelli 1872;
in proposito Bertani, Pacciarelli 1996).
Dopo lo scavo di Scarabelli,
le esplorazioni della grotta a scopo scientifico, e non
rivolte al saccheggio di oggetti di pregio, all'estrazione
di guano, o semplicemente allo svago, sono tutte comprese
nella prima metà di questo secolo: tra il 1923 e il 1935
Riccardo Lanzoni vi compì intense ricerche, nel corso delle
quali rinvenne, tra l'altro, una stipe di circa trecento
vasetti miniaturistici entro una fenditura della roccia; nel
1941 Antonio Veggiani vi eseguì un piccolo intervento di
scavo; nel 1950, infine, la Soprintendenza Archeologica
dell'Emilia Romagna, in seguito al continuo verificarsi di
sterri abusivi, vi aprì alcuni saggi diretti da G.A.
Mansuelli, che portarono al rinvenimento di frammenti
dell'età del bronzo e di alcune concentrazioni di vasetti
miniaturistici (per una più dettagliata storia degli scavi
e per la bibliografia relativa rimando a Bertani 1996a).
Dopo un lungo periodo di
stasi, negli ultimi anni la grotta è stata oggetto di nuove
ricerche, questa volta speleologiche, condotte a partire dal
1990 dal Gruppo Amici della Montagna di Mezzano, nel corso
delle quali sono stati scoperti, a cinque metri di profondità,
i resti di una sepoltura e alcune ceramiche datate al Bronzo
antico, ad essa almeno in parte associate (Bertani et al.
1994).
Benché fin dai primi scavi i
vasetti miniaturistici costituissero la percentuale più
elevata dei materiali ritrovati, e benché nel 1867 fosse
stato rinvenuto almeno un bronzetto di offerente (Circa le modalità di
rinvenimento degli altri due bronzetti tuttora
conservati nella collezione Scarabelli non vi è alcuna
notizia nella bibliografia),
il riconoscimento dell'uso santuariale della grotta avvenne
con relativo ritardo. Scarabelli ne proponeva infatti una
destinazione eminentemente funeraria, e riteneva "un
enigma" "la grande quantità di piccoli vasetti [
... ] raccolti [ ... ] in uno spazio relativamente molto
ristretto" (Scarabelli 1872, pp. 55-57). L'ipotesi
della presenza di una stipe votiva nella grotta, cui
andavano riferiti i vasetti miniaturistici, si deve invece
al Pigorini, oltre vent'anni dopo lo scavo di Scarabelli (Pigorini
1896), mentre si deve al Rellini, dopo altri vent'anni, la
prima associazione di questi materiali ad un culto delle
acque salutari (Rellini 1916).
Frequentata già nell'età
del bronzo, forse anche a scopi cultuali (Bertani,
Pacciarelli 1996, p. 430; cfr. anche Pacciarelli, supra),
nell'età del ferro la grotta si connota con chiarezza
come luogo di culto almeno a partire dalla fine del VI-inizi
del V secolo a.C., età cui è riferibile un bronzetto
raffigurante una devota (n. 63), il più antico dei
materiali a destinazione sicuramente votiva databili con una
qualche precisione. Tracce di una utilizzazione della grotta
anteriore a questa data e collocabile ipoteticamente in un
momento iniziale del VI secolo a.C., in relazione al primo
diffondersi del popolamento umbro, sembrano tuttavia
riconoscibili nello strato di esiguo spessore incontrato da
Scarabelli nell'area più interna della grotta, tra i 2,91 e
i 3,26 metri di profondità, sopra ai livelli dell'età del
bronzo. A questa fase sono probabilmente da riferire diversi
frammenti di contenitori in ceramica d'impasto modellata a
mano e un peso da telaio troncopiramidale (Bertani 1996b,
pp. 465-467, 469), dei quali non è possibile tuttavia
precisare la connotazione funzionale: se si tratti cioè
delle prime attestazioni di una frequentazione a scopo
cultuale comportante la deposizione di oggetti ancora non
differenziati rispetto a quelli d'uso comune, oppure, come
sembra meno probabile, di resti di occupazione temporanea a
fini abitativi.
Più chiare testimonianze di
pratiche cultuali nella grotta si allineano invece su un
asse cronologico che, dallo scorcio del VI secolo a.C.,
giunge con continuità sostanzialmente ininterrotta fino
all'età romana.
Le datazioni più puntuali
sono fornite ancora una volta dai bronzetti votivi: oltre
all'esemplare già menzionato, tra i materiali conservati
presso il museo comunale di Imola si annovera infatti un
secondo bronzetto di offerente maschile stante con torquis
celtico (n.
64), datato alla prima metà del IV secolo a.C.
(Vitali 1991, p. 86), mentre un terzo bronzetto -di
offerente ammantato con patera (Monti 1963), attualmente non
reperibile (Il bronzetto sembra sia
andato disperso nel 1985, in occasione di un restauro;
bibliografia in Bertani 1996b) è inseribile in serie tardoellenistiche,
e trova confronti, tra l'altro, nella non lontana stipe di
Sarsina (Ortalli 1988); un quarto esemplare infine,
appartenente alla collezione privata Lanzoni e noto soltanto
da una foto, peraltro non molto nitida (Veggiani 1957, fig.
5), sembra inseribile nelle serie di votivi schematici assai
diffuse in area padana nel corso del V secolo.
Significativi sul piano
cronologico, i bronzetti risultano tuttavia assai poco
numerosi, e sembrerebbero rappresentare un tipo di offerta
del tutto occasionale. Al contrario, essi dovevano
costituire in antico un deposito molto ricco, dal momento
che la loro presenza, certo unita all'isolamento del luogo,
dovette motivare tra la fine del XIV e gli inizi del XV
secolo l'impianto di una probabile zecca clandestina (Gelichi
1996), e che ancora negli ultimi decenni del secolo scorso
"idoletti di bronzo" rappresentavano per i
numerosi visitatori della grotta un souvenir acquistabile
presso locali cercatori clandestini (Orsoni 1890).
Numerosissimi, e decisamente
connotanti il contesto votivo, sono invece i vasetti
miniaturizzati, dei quali il museo comunale di Imola
conserva oltre ottocento esemplari (650 vasetti
miniaturizzati sono attualmente esposti nel museo comunale
di Imola nella vetrina dedicata ai materiali della grotta
del Re Tiberio, mentre altri 156 esemplari, per lo più
frammentari, sono conservati in una cassa nei magazzini
dello stesso museo, cfr. Bertani 1996a, p. 429, nota 26). Realizzati in
un'argilla parzialmente depurata, i vasetti richiamano, per
quanto latamente, le forme del vasellame da mensa, ma in
dimensioni così ridotte (solo quattro esemplari superano i
4 cm di altezza) da far ritenere generalmente improprio,
tranne che in qualche caso isolato (n.
33), l'uso dei medesimi vocaboli per la
definizione degli oggetti. Il gruppo di gran lunga più
consistente è rappresentato da vasetti troncoconici senza
anse né prese (nn.
1-32), che, in diverse varietà tipologiche, evocano
scodelle, bicchieri, coppette e piattelli. Meno numeroso il
gruppo dei miniaturistici a due anse verticali (nn.
34-44), che sembrano ispirati al modello del kantharos
etrusco, così come al modello dello skyphos sembrano
rifarsi i pochi vasetti ad anse orizzontali (n.
45), mentre imitano la tipica forma umbra dell'olletta/bicchiere
i non molti esemplari decorati a bugne (nn.
46-49). Dal punto di vista cronologico i
vasetti, ai quali peraltro la semplicità della fattura e la
scarsa articolazione morfologica, unite al valore votivo,
conferiscono straordinaria continuità, paiono coprire nel
complesso un arco di tempo che dal VI giunge almeno fino al
IV-III secolo a.C., senza che finora risultino del tutto
perspicue datazioni più dettagliate (per una
classificazione tipologica e un inquadramento più puntuali
cfr. Bertani 1996b).
Sembrano rivestire un valore
eminentemente simbolico anche alcune scodelle di piccole
dimensioni (nn.
51-54), che condividono con i miniaturizzati
la diffusione in area padana in contesti cultuali o
sepolcrali (bibliografia in Bertani 1996b, p. 444), e che
fanno parte di gruppo piuttosto consistente di ceramiche di
produzione locale, comprendente vasellame da mensa lavorato
al tornio nelle forme della scodella (n.
50), del piattello (n.
55), del bicchiere e dell'olla, nonché esemplari
sostanzialmente isolati di coppette, brocche, anfore e skyphoi,
e ceramiche d'impasto modellate a mano, quali olle,
bicchieri, scodelle-coperchio e coperchi, che trovano pieno
inquadramento tipologico e cronologico nei materiali di area
romagnola (Romagna 198 l; von Eles 1994; Forlì
1996).
Accanto al vasellame locale,
diversi frammenti documentano la presenza tra i materiali
della grotta anche di più pregiate ceramiche di
importazione, sia di produzione attica che di fabbrica
etrusca. La ceramica attica è rappresentata da un fondo di stemless
cup a vernice nera, decorato a palmette e ovoli impressi
(n.
59), e da frammenti di un coperchio di lekane a
figure rosse (n.
58), per i quali si è proposta una datazione,
rispettivamente, alla fine del V e al primo venticinquennio
del IV secolo a.C. (Bertani 1996b, p. 446). La produzione
etrusca è invece documentata da uno skyphos sovradipinto
appartenente alla serie settentrionale del "Gruppo di
Ferrara T. 585" (nn.
60-61), e da diversi frammenti di vasellame a
vernice nera (n.
62), assegnabile in parte a fabbriche
etrusco-settentrionali, in parte a botteghe padane,
probabilmente spinetiche (Bertani 1996b, pp. 446-448).
Il complesso dei materiali
rivela dunque un utilizzo della grotta come luogo di culto
tanto nella fase del popolamento umbro dell'area romagnola,
quanto nel periodo successivo alla calata celtica (cfr. in
proposito Vitali 1991), con una continuità che sembra non
risentire delle trasformazioni insediative e culturali del
territorio circostante, e che prosegue poi anche in età
romana (cfr. Mazzini 1996).
I tipi di offerte
specializzate, i bronzetti votivi e i vasetti simbolici,
collegano inoltre la grotta del Re Tiberio gli uni alla "koiné
del bronzo" dei luoghi di culto dell'Etruria padana
(Sassatelli 1991) e dell'area umbro-tiberina (si rimanda da ultimo agli
atti del convegno tenuto ad Umbertide nel 1996 sul tema
"Santuari d'altura in ambiente italico", in corso
di stampa) gli
altri alle tradizioni ben attestate in area romagnola (cfr. Romagna
1981, passim) e documentati, tra le zone
limitrofe, anche in quella picena (cfr. Baldelli, in questo
volume); mentre la loro associazione trova finora riscontri
molto significativi, oltre che nell'abitato
l'occidentale" di Campo Servirola-S. Polo (Damiani et al.
1992), nelle più vicine stipi di Monterenzio e di
Castrocaro, in entrambi i casi in contesti cultuali legati
alla presenza d'acqua (cfr. rispettivamente Vitali, Guidi,
Minarini e Miari, infra). Accanto ai bronzetti di
devoto e al vasellame ceramico, simbolico o d'uso comune,
altri tipi di offerte potevano essere costituiti, oltre che
forse da prodotti alimentari (cfr. Miari 1995), anche da
piccoli oggetti di metallo o da materiali pregiati come
l'ocra, rinvenuti gli uni e gli altri all'interno di alcuni
vasetti miniaturistici (Bertani, Pacciarelli 1996, pp.
432-433); l'inquadramento cronologico molto problematico di
una fusaiola e di due pesi da telaio (Bertani 1996b, pp. 448
e 469) non consente invece di formulare ipotesi certe sulla
presenza di un culto di tipo femminile.
Quanto alle modalità della
frequentazione della grotta, il ritrovamento in tutti gli
scavi dei vasetti miniaturistici solo nell'area più vicina
all'ingresso, e sempre in insiemi di numerosi esemplari,
induce ad ipotizzare che la fruizione dello spazio sacro
potesse essere differenziata, e che la zona prossima
all'apertura, più agevolmente raggiungibile dai devoti,
fosse principalmente deputata sia alla captazione (e alla
libagione?) delle acque minerali, sia ad accogliere in
piccole stipi le offerte che venivano deposte una volta
espletati i riti.
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