AA. VV. Acque, grotte e Dei - 3000 anni di culti preromani in Romagna, Marche e Abruzzo a cura di Marco Pacciarelli - Imola - Marzo 1997
      

LA GROTTA DEL RE TIBERIO

Maria Giovanna Bertani

La Grotta del Re Tiberio si apre a m 175 di altezza s.l.m. entro Monte Mauro nella valle del fiume Senio, in comune di Riolo Terme, ed è la più nota tra le grotte che costellano la Vena del Gesso (Marabini 1996). Di formazione carsica e forse parzialmente sommersa in epoche remote da acque fluviali (un torrente scorre tuttora nell'area della grotta a maggiore profondità), la grotta consta di un vano d'ingresso che si allunga, con andamento angolato, fino ad una sala circolare di m 15 ca. di diametro (la cosiddetta "cupola gotica": Scarabelli 1872, p. 48), e di un esteso sistema di gallerie e cunicoli, esplorato di recente per oltre due chilometri e in parte irrimediabilmente alterato dagli interventi di una cava di gesso (Bertani et al. 1994).

Giuseppe Scarabelli, che si era occupato della grotta dal punto di vista geologico già nel 1851 (Scarabelli 1851) e che nel 1856 ne aveva eseguito il rilievo insieme all'amico Giacomo Tassinari, nel 1872 così la descrive: "Apresi la bocca della caverna circa 90 metri al disopra del livello del fiume, ed il suo ingresso piuttosto ampio e regolare [ ... ], mostra già evidentemente essere stato così ridotto dalla mano stessa dell'uomo. Questa infatti vi formava in sul davanti, in ciascuno dei lati, una larga sporgenza a modo di gradino per starvi seduti, e parimenti vi praticava collo scalpello, nella parete a destra di chi entra nella grotta, vari incavi rettangolari [ ... ]. Due fra questi incavi sono formati nella parte inferiore a guisa di abbeveratoi, e come tali infatti vennero opportunamente scavati al disotto di una piccola vena d'acqua sgorgante da una fessura della vòlta della caverna [ ... ]. Così avviene che anche di presente uno dei detti abbeveratoi trovisi ricolmo d'acqua quasi perennemente, e sia per conseguenza un vero tesoro per tutti coloro che salgono a visitare la grotta. E però se ora ci portiamo col pensiero a quei tempi remoti, in cui quest'acqua [ ... ] dovette zampillare direttamente al di fuori del monte da un qualche pertugio, ci sarà facile inferire essere stata questa stessa sorgente d'acqua che avrà destato probabilmente negli uomini d'allora la curiosità di penetrare all'interno del monte [...]" (Scarabelli 1872, p. 46). Le testimonianze di un'antica presenza umana nella grotta, cui Scarabelli fa riferimento nell'articolo del 1872, avevano da pochi anni assunto concretezza scientifica: sette anni prima, infatti, nel maggio del 1865, Giacomo Tassinari, farmacista, naturalista dilettante e fondatore, insieme con Scarabelli, del museo comunale di Imola, vi aveva compiuto i primi scavi archeologici, raggiungendo la profondità di tre metri e rinvenendo ai livelli superiori frammenti di crogioli e resti di fusione, e a quota inferiore un gruppo di vasetti miniaturistici, materiali ceramici dell'età del ferro e dell'età del bronzo e ossa animali. Se la presenza dei crogioli e lo stato del deposito, che risultava intaccato da interventi successivi, davano corpo alle tradizioni locali sull'esistenza nella grotta di "monetarj falsi" (Scarabelli 1872, p. 49; in proposito Gelichi 1996), la potenza del giacimento archeologico e i materiali rinvenuti attestavano nel luogo una frequentazione prolungata, che Tassinari assegnava con acribia a "diverses époques des áges anté-historiques" (Tassinari 1865, p. 485). Nel dicembre dello stesso anno Tassinari, forse in compagnia di Scarabelli, compì una seconda esplorazione, che portò al rinvenimento di "un gran numero" di vasetti miniaturistici.

A Tassinari e Scarabelli, di cui è nota almeno una seconda ricognizione congiunta nel 1869, si aggiunse come terzo ricercatore il faentino Domenico Zauli Naldi, che, indotto dalla lettura del resoconto del primo scavo del 1865, condusse nella grotta altri due interventi di scavo, nel 1867 e nel 1869, nel corso dei quali furono raccolti, oltre a molti resti di crogioli e ritagli di lastre bronzee, a vasetti miniaturistici e ad altri materiali dell'età del ferro, un bronzetto di offerente, frammenti di ceramica a vernice nera e in terra sigillata e alcune monete romane.

Un anno più tardi, probabilmente in vista del Congresso Internazionale d'Antropologia e d'Archeologia preistoriche che si sarebbe tenuto a Bologna nel 1871, Scarabelli vi compì un accurato scavo stratigrafico, che raggiunse a m 4,96 di profondità il piano naturale della grotta e che, esemplare per esecuzione e documentazione, restò per molto tempo l'ultimo, e l'unico, intervento rigorosamente scientifico realizzatovi.

Il saggio, aperto nel settore più interno del vano d'ingresso, mise in luce una stratificazione composta da cinque livelli di terreno, distinti da piani di carbone e cenere e contenenti materiali di cui già Scarabelli osservava la correlazione con gli strati di rinvenimento: "e cioè che in ordine discendente, tutti si riconobbero rappresentare un grado sempre più decrescente nella civiltà degli uomini a cui dovettero spettare" (Scarabelli 1872, p. 51).

Il livello superiore, fino a m 1,75 di profondità, conteneva, insieme ad altro materiale, anche frammenti di maiolica, risultando pertanto riferibile (almeno negli interventi più recenti) alla frequentazione post-classica; il secondo livello, fino a m -2,91, includeva materiali di età romana (vetri) e probabili frammenti di ceramica a vernice nera, che parrebbero indicare un deposito successivo agli inizi del IV secolo a.C., mentre il terzo livello, fino a m -3,26, resti di vasellame non tornito, forse risalente in parte alle prime fasi di frequentazione dell'età del ferro (cfr. infra); dal quarto livello, fino a m -4,70, furono raccolti frammenti ceramici collocabili nell'età del bronzo; infine l'ultimo strato racchiudeva ossa umane, a testimonianza di un originario uso sepolcrale della grotta (Scarabelli 1872; in proposito Bertani, Pacciarelli 1996).

Dopo lo scavo di Scarabelli, le esplorazioni della grotta a scopo scientifico, e non rivolte al saccheggio di oggetti di pregio, all'estrazione di guano, o semplicemente allo svago, sono tutte comprese nella prima metà di questo secolo: tra il 1923 e il 1935 Riccardo Lanzoni vi compì intense ricerche, nel corso delle quali rinvenne, tra l'altro, una stipe di circa trecento vasetti miniaturistici entro una fenditura della roccia; nel 1941 Antonio Veggiani vi eseguì un piccolo intervento di scavo; nel 1950, infine, la Soprintendenza Archeologica dell'Emilia Romagna, in seguito al continuo verificarsi di sterri abusivi, vi aprì alcuni saggi diretti da G.A. Mansuelli, che portarono al rinvenimento di frammenti dell'età del bronzo e di alcune concentrazioni di vasetti miniaturistici (per una più dettagliata storia degli scavi e per la bibliografia relativa rimando a Bertani 1996a).

Dopo un lungo periodo di stasi, negli ultimi anni la grotta è stata oggetto di nuove ricerche, questa volta speleologiche, condotte a partire dal 1990 dal Gruppo Amici della Montagna di Mezzano, nel corso delle quali sono stati scoperti, a cinque metri di profondità, i resti di una sepoltura e alcune ceramiche datate al Bronzo antico, ad essa almeno in parte associate (Bertani et al. 1994).

Benché fin dai primi scavi i vasetti miniaturistici costituissero la percentuale più elevata dei materiali ritrovati, e benché nel 1867 fosse stato rinvenuto almeno un bronzetto di offerente (Circa le modalità di rinvenimento degli altri due bronzetti tuttora conservati nella collezione Scarabelli non vi è alcuna notizia nella bibliografia), il riconoscimento dell'uso santuariale della grotta avvenne con relativo ritardo. Scarabelli ne proponeva infatti una destinazione eminentemente funeraria, e riteneva "un enigma" "la grande quantità di piccoli vasetti [ ... ] raccolti [ ... ] in uno spazio relativamente molto ristretto" (Scarabelli 1872, pp. 55-57). L'ipotesi della presenza di una stipe votiva nella grotta, cui andavano riferiti i vasetti miniaturistici, si deve invece al Pigorini, oltre vent'anni dopo lo scavo di Scarabelli (Pigorini 1896), mentre si deve al Rellini, dopo altri vent'anni, la prima associazione di questi materiali ad un culto delle acque salutari (Rellini 1916).

Frequentata già nell'età del bronzo, forse anche a scopi cultuali (Bertani, Pacciarelli 1996, p. 430; cfr. anche Pacciarelli, supra), nell'età del ferro la grotta si connota con chiarezza come luogo di culto almeno a partire dalla fine del VI-inizi del V secolo a.C., età cui è riferibile un bronzetto raffigurante una devota (n. 63), il più antico dei materiali a destinazione sicuramente votiva databili con una qualche precisione. Tracce di una utilizzazione della grotta anteriore a questa data e collocabile ipoteticamente in un momento iniziale del VI secolo a.C., in relazione al primo diffondersi del popolamento umbro, sembrano tuttavia riconoscibili nello strato di esiguo spessore incontrato da Scarabelli nell'area più interna della grotta, tra i 2,91 e i 3,26 metri di profondità, sopra ai livelli dell'età del bronzo. A questa fase sono probabilmente da riferire diversi frammenti di contenitori in ceramica d'impasto modellata a mano e un peso da telaio troncopiramidale (Bertani 1996b, pp. 465-467, 469), dei quali non è possibile tuttavia precisare la connotazione funzionale: se si tratti cioè delle prime attestazioni di una frequentazione a scopo cultuale comportante la deposizione di oggetti ancora non differenziati rispetto a quelli d'uso comune, oppure, come sembra meno probabile, di resti di occupazione temporanea a fini abitativi.

Più chiare testimonianze di pratiche cultuali nella grotta si allineano invece su un asse cronologico che, dallo scorcio del VI secolo a.C., giunge con continuità sostanzialmente ininterrotta fino all'età romana.

Le datazioni più puntuali sono fornite ancora una volta dai bronzetti votivi: oltre all'esemplare già menzionato, tra i materiali conservati presso il museo comunale di Imola si annovera infatti un secondo bronzetto di offerente maschile stante con torquis celtico (n. 64), datato alla prima metà del IV secolo a.C. (Vitali 1991, p. 86), mentre un terzo bronzetto -di offerente ammantato con patera (Monti 1963), attualmente non reperibile (Il bronzetto sembra sia andato disperso nel 1985, in occasione di un restauro; bibliografia in Bertani 1996b) è inseribile in serie tardoellenistiche, e trova confronti, tra l'altro, nella non lontana stipe di Sarsina (Ortalli 1988); un quarto esemplare infine, appartenente alla collezione privata Lanzoni e noto soltanto da una foto, peraltro non molto nitida (Veggiani 1957, fig. 5), sembra inseribile nelle serie di votivi schematici assai diffuse in area padana nel corso del V secolo.

Significativi sul piano cronologico, i bronzetti risultano tuttavia assai poco numerosi, e sembrerebbero rappresentare un tipo di offerta del tutto occasionale. Al contrario, essi dovevano costituire in antico un deposito molto ricco, dal momento che la loro presenza, certo unita all'isolamento del luogo, dovette motivare tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo l'impianto di una probabile zecca clandestina (Gelichi 1996), e che ancora negli ultimi decenni del secolo scorso "idoletti di bronzo" rappresentavano per i numerosi visitatori della grotta un souvenir acquistabile presso locali cercatori clandestini (Orsoni 1890).

Numerosissimi, e decisamente connotanti il contesto votivo, sono invece i vasetti miniaturizzati, dei quali il museo comunale di Imola conserva oltre ottocento esemplari (650 vasetti miniaturizzati sono attualmente esposti nel museo comunale di Imola nella vetrina dedicata ai materiali della grotta del Re Tiberio, mentre altri 156 esemplari, per lo più frammentari, sono conservati in una cassa nei magazzini dello stesso museo, cfr. Bertani 1996a, p. 429, nota 26). Realizzati in un'argilla parzialmente depurata, i vasetti richiamano, per quanto latamente, le forme del vasellame da mensa, ma in dimensioni così ridotte (solo quattro esemplari superano i 4 cm di altezza) da far ritenere generalmente improprio, tranne che in qualche caso isolato (n. 33), l'uso dei medesimi vocaboli per la definizione degli oggetti. Il gruppo di gran lunga più consistente è rappresentato da vasetti troncoconici senza anse né prese (nn. 1-32), che, in diverse varietà tipologiche, evocano scodelle, bicchieri, coppette e piattelli. Meno numeroso il gruppo dei miniaturistici a due anse verticali (nn. 34-44), che sembrano ispirati al modello del kantharos etrusco, così come al modello dello skyphos sembrano rifarsi i pochi vasetti ad anse orizzontali (n. 45), mentre imitano la tipica forma umbra dell'olletta/bicchiere i non molti esemplari decorati a bugne (nn. 46-49). Dal punto di vista cronologico i vasetti, ai quali peraltro la semplicità della fattura e la scarsa articolazione morfologica, unite al valore votivo, conferiscono straordinaria continuità, paiono coprire nel complesso un arco di tempo che dal VI giunge almeno fino al IV-III secolo a.C., senza che finora risultino del tutto perspicue datazioni più dettagliate (per una classificazione tipologica e un inquadramento più puntuali cfr. Bertani 1996b).

Sembrano rivestire un valore eminentemente simbolico anche alcune scodelle di piccole dimensioni (nn. 51-54), che condividono con i miniaturizzati la diffusione in area padana in contesti cultuali o sepolcrali (bibliografia in Bertani 1996b, p. 444), e che fanno parte di gruppo piuttosto consistente di ceramiche di produzione locale, comprendente vasellame da mensa lavorato al tornio nelle forme della scodella (n. 50), del piattello (n. 55), del bicchiere e dell'olla, nonché esemplari sostanzialmente isolati di coppette, brocche, anfore e skyphoi, e ceramiche d'impasto modellate a mano, quali olle, bicchieri, scodelle-coperchio e coperchi, che trovano pieno inquadramento tipologico e cronologico nei materiali di area romagnola (Romagna 198 l; von Eles 1994; Forlì 1996).

Accanto al vasellame locale, diversi frammenti documentano la presenza tra i materiali della grotta anche di più pregiate ceramiche di importazione, sia di produzione attica che di fabbrica etrusca. La ceramica attica è rappresentata da un fondo di stemless cup a vernice nera, decorato a palmette e ovoli impressi (n. 59), e da frammenti di un coperchio di lekane a figure rosse (n. 58), per i quali si è proposta una datazione, rispettivamente, alla fine del V e al primo venticinquennio del IV secolo a.C. (Bertani 1996b, p. 446). La produzione etrusca è invece documentata da uno skyphos sovradipinto appartenente alla serie settentrionale del "Gruppo di Ferrara T. 585" (nn. 60-61), e da diversi frammenti di vasellame a vernice nera (n. 62), assegnabile in parte a fabbriche etrusco-settentrionali, in parte a botteghe padane, probabilmente spinetiche (Bertani 1996b, pp. 446-448).

Il complesso dei materiali rivela dunque un utilizzo della grotta come luogo di culto tanto nella fase del popolamento umbro dell'area romagnola, quanto nel periodo successivo alla calata celtica (cfr. in proposito Vitali 1991), con una continuità che sembra non risentire delle trasformazioni insediative e culturali del territorio circostante, e che prosegue poi anche in età romana (cfr. Mazzini 1996).

I tipi di offerte specializzate, i bronzetti votivi e i vasetti simbolici, collegano inoltre la grotta del Re Tiberio gli uni alla "koiné del bronzo" dei luoghi di culto dell'Etruria padana (Sassatelli 1991) e dell'area umbro-tiberina (si rimanda da ultimo agli atti del convegno tenuto ad Umbertide nel 1996 sul tema "Santuari d'altura in ambiente italico", in corso di stampa) gli altri alle tradizioni ben attestate in area romagnola (cfr. Romagna 1981, passim) e documentati, tra le zone limitrofe, anche in quella picena (cfr. Baldelli, in questo volume); mentre la loro associazione trova finora riscontri molto significativi, oltre che nell'abitato l'occidentale" di Campo Servirola-S. Polo (Damiani et al. 1992), nelle più vicine stipi di Monterenzio e di Castrocaro, in entrambi i casi in contesti cultuali legati alla presenza d'acqua (cfr. rispettivamente Vitali, Guidi, Minarini e Miari, infra). Accanto ai bronzetti di devoto e al vasellame ceramico, simbolico o d'uso comune, altri tipi di offerte potevano essere costituiti, oltre che forse da prodotti alimentari (cfr. Miari 1995), anche da piccoli oggetti di metallo o da materiali pregiati come l'ocra, rinvenuti gli uni e gli altri all'interno di alcuni vasetti miniaturistici (Bertani, Pacciarelli 1996, pp. 432-433); l'inquadramento cronologico molto problematico di una fusaiola e di due pesi da telaio (Bertani 1996b, pp. 448 e 469) non consente invece di formulare ipotesi certe sulla presenza di un culto di tipo femminile.

Quanto alle modalità della frequentazione della grotta, il ritrovamento in tutti gli scavi dei vasetti miniaturistici solo nell'area più vicina all'ingresso, e sempre in insiemi di numerosi esemplari, induce ad ipotizzare che la fruizione dello spazio sacro potesse essere differenziata, e che la zona prossima all'apertura, più agevolmente raggiungibile dai devoti, fosse principalmente deputata sia alla captazione (e alla libagione?) delle acque minerali, sia ad accogliere in piccole stipi le offerte che venivano deposte una volta espletati i riti.

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